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giovedì 15 maggio 2025

Picchio verde (e anche un po' rosso)


Oggi ho incontrato un picchio verde come questo. La foto non è mia, l'ha postata un Carlo Caimi nel 2022, ma ora la sua pagina non è più raggiungibile. Gli devo dei ringraziamenti perché non ha voluto restrizioni nell'utilizzo dell'immagine. Rara dimostrazione di altruismo e di amore (gratuito) per la natura (o il creato se preferite). Il mio incontro è stato talmente fulmineo che non avrei avuto il tempo di scattare una foto con il cellulare. Anche perché oggi avevo deciso di uscire a camminare senza legami tecnologici col resto del mondo.

Dunque ho avvertito la presenza di un volatile attraverso il rumore (appunto) di un volo, di uno sbattere di ali piuttosto scomposto, non da uccello avvezzo a lunghi voli. Alzando gli occhi ho scorto una macchia verde chiaro (quasi gialla) con una macchia rossa staccarsi da un'imberbe tiglio e appendersi al tronco di una quercia adolescente. Il giovane bosco costeggia la pista ciclabile che da Copreno si dirige a Lazzate e passa proprio accanto alla cascina Grigioni.

Nell'avvicinarmi cauto all'albero su cui si era posata, la macchia giallo/rosso/verde si spostava verso la cima del tronco, con movimento ripetuto ad ogni mio passo. Infine, infastidito dalla mia minacciosa curiosità, si è slanciata verso l'estremo opposto del boschetto. Ed è proprio qui che si è rivelato ai miei occhi questo splendido piciforme, lungo una trentina di centimetri, con un'apertura alare inferiore al mezzo metro.

Evidentemente era a caccia di formiche con la sua lingua lunga e vischiosa e io, che avevo appena terminato il mio, ho finito per disturbare il suo pranzo. Purtroppo non sono riuscito a vedere se si trattasse di un maschio come quello ritratto dal Caimi, con un inserto rosso all'interno del baffo (o mustacchio), o di una femmina che invece ne è priva.

Buon pomeriggio amico Picus (viridis).
 

lunedì 24 aprile 2023

Salita al monte Bolettone dopo un temporale.

Un fringuello alpino su un abete rosso.

Il caffè di Margherita alla locanda del Vicerè.

Il sentiero direttissimo per il doss Maio.

Le rondini in ronda attorno alla culmine.

Banana noci e mandorle in vetta al Bolettone.

Una coppia: come si arriva alla baita Patrizi?

Lei ha una caviglia gonfia e soffre in salita.

Un ciclista: si può fare anche in bici?

Che ci sarà oggi al di là del filare di abeti?

Le prime timide genziane, ma nessun narciso.

Un bombo si tuffa nel blu intenso.

La radice a fittone nella grappa.

Un ottimo digestivo dal gusto amaro.

Il sentiero di cresta tra faggi e noccioli.

La vista panoramica del monte Puscio.

Nessun fiore ma molta gioventù.

Con pazienza la panchina si libera.

Pane alla curcuma e formaggio.

Il cielo si copre e comincia a piovere.

C'è neve sul Serada e sulle Grigne.

Spuntano Legnone Arera e Disgrazia.

Sul pizzo dei Tre Signori un cappello di nubi.

Alla capanna Mara mi siedo in terrazza.

Un sigaro in disparte sopra la folla ai tavoli.

Dalla catasta di rami un fruscio.

Due lucertole incerte se uscire al sole.

Qua e là spunta timido l'aglio orsino.

Ottimo pesto per un piatto di pasta.

La discesa sotto una timida pioggia.



giovedì 27 ottobre 2022

Ebrei a Como e dintorni


 

Le prime comunità nacquero intorno al 1387. Gli ebrei fuggivano dalle violente persecuzioni scoppiate in Germania a seguito dell’epidemia di peste nera del 1348. Giunti in Lombardia ottennero una sinagoga e un cimitero fuori città.

Nel 1435 un gruppo di ebrei chiese di risiedere a Como e di aprire un banco di prestito nei pressi della parrocchia di san Fedele. Nel 1479 fu chiesto al Duca di Milano di allontanare una famiglia di ebrei di Como: in una casa in affitto in “contrada de funtanela” si tenevano le “sinagoge, consilij et tractamenti ebraici soliti a fare”. Nel 1488 si tenne a Milano un processo contro gli ebrei che terminò con 9 condanne a morte. Negli atti del processo si menziona anche Mandello. Gli imputati gestivano banchi di prestito o svolgevano attività commerciali. Tutti conoscevano la Bibbia e il Talmud, il Mishnè Torà di Maimonide, gli Arbà Turim di Ia’acov ben Asher e i commenti di Rashì. Nel 1490, in contrada san Raffaele a Milano, vennero bruciati sul rogo 172 volumi esaminati nel corso del processo. Per un certo Salomone da Como la pena fu commutata nel pagamento di 19 mila ducati.

La presenza ebraica nella Lombardia settentrionale fu contrastata dalla predicazione antisemita. In particolare ad opera del beato Michele Carcano (1427-1484), nato a Lomazzo da una famiglia originaria di Bregnano, e divenuto francescano nella basilica di S. Croce in Como. Costui portò in molte città i Monti di Pietà e attraverso le opere pie contribuì alla fondazione degli ospedali maggiori di Milano e Como. Nei suoi sermoni minacciava la scomunica per le città che avrebbero ospitato prestatori di denaro ebrei. Il vescovo di Trento lo incaricò di diffondere nei territori della Repubblica di Venezia il culto di san Simonino.

Nel 1540 il proprietario del banco di prestito di Como era Raffaele da Pizzighettone, che sfuggì alla persecuzione e all’espulsione del 1557. L’anno successivo il banco venne rilevato dalla famiglia Sacerdote e trasferito nella parrocchia di san Giacomo, nei pressi del palazzo dei Consoli di Giustizia dei Mercanti. Nel 1594 in un documento si legge che gli ebrei erano stati cacciati “già più di vinti anni sono, con qualche spesa e travaglio”.

Al centro di Brivio, sulle sponde del lago di Como, c’è una “piazzetta della Sinagoga”. Vi si accede da via Cesare Cantù attraverso un arco. Probabilmente era all’interno di un piccolo ghetto. Nel centro storico di Brunate c’è una “curt di Ebrei”. Ad Agra, in Valganna in provincia di Varese, c’è una “corte degli ebrei”, a Ghirla c’è una scritta “al ghetto”, mentre al paesino di Due Cossani esiste una “corte dei giudei”. Ad Abbiate Guazzone dal 1956 al 1958 ci sono menzioni di un oratorio ebraico attivo per le feste del capodanno ebraico. All’epoca era “l’unico oratorio privato stabile esistente in Italia”.

In ebraico il cimitero è la “casa dei viventi” (bet ha-chajìm), un giardino della memoria. Molte lapidi presentano un unico testo ebraico, una sigla, formata dalle lettere tav, nun, tzade, bet, he. È un acrostico che significa “possa la sua anima essere ben custodita nel fascio della vita” (tihje nismato – al femminile nismatà – tzurà bitzror ha-chajìm). Spesso si trovano una forma abbreviata del decalogo, citazioni dallo Shemà Israel e dalla donna forte dei Proverbi, versetti dei Salmi e del libro di Giobbe. Ad Agra c’è una lapide ebraica nei pressi del cimitero cattolico.

A Como, in via Carlo Maderno nella frazione di Monte Olimpino, sorge un cimitero ebraico ancora in uso. Si trova in una zona lontana dal lago e vicina al confine con la Svizzera, a ridosso della formazione montuosa della Spina Verde, nei pressi dell’uscita omonima dell’autostrada dei Laghi. Si tratta di un’area di circa 200 metri quadri, all’estremo del secondo gradone del cimitero, raggiungibile dall’interno tramite un piccolo cancello sempre aperto e dalla strada attraverso un portone in metallo grigio. Le 29 tombe (3 doppie) sono rivolte verso Gerusalemme. Le lapidi riportano nomi e cognomi, titoli onorifici, date di nascita e morte, stella di Israele o candelabro a sette braccia. La richiesta del cimitero, da parte di alcune famiglie residenti a Como, risale al 1951. La mediazione dall’avvocato Giuseppe Ottolenghi, nonché la disponibilità delle famiglie ebraiche a finanziare parte delle spese, condusse in 2 anni alla concessione perpetua dell’area. La diminuzione della presenza ebraica in Como va di pari passo con il trasferimento di alcune salme in Israele.

giovedì 23 giugno 2022

Ceppo dell'Angua - Foresta di Canzo

 

In epoca medioevale a Gerusalemme, sotto la guida dei cosiddetti gheonim, il settimo giorno della festa di capanne (succot) si girava sette volte intorno al monte degli ulivi. Una circumambulazione delle tombe dei giusti di un antico cimitero sarebbe un rito propiziatorio.

Oggi nelle sinagoghe si gira intorno a un rotolo della torà per tutti i sette giorni della festa di succot. L’ultimo giorno (hoshanà rabbà) i sette giri sono in senso antiorario. Si regge un ramo di palma (lulav) e si intonano canti reclamano da Dio la salvezza (hoshanot). In alcune comunità si soffia un corno cavo di montone (shofar).

La conquista di Gerico narrata nella Bibbia, dal sesto capitolo del libro di Giosuè, narra di un giro al giorno per sei giorni attorno alle mura della città. I sacerdoti con sette shofar portavano in processione l’arca dell’alleanza scortata da truppe armate. Il settimo giorno, al termine di sette giri e al suono dei corni, le mura crollarono. Gli archeologi parlano tuttavia dell’occupazione di una città già in rovina. Secondo la mistica (qabbalà) di Safed di Isacco Luria, sette giri hanno il potere di realizzare grandi tiqqunim (restaurazioni di ordini ideali) dei mondi superiori.

Oggi questo girotondo è chiamato haqqafà. La radice linguistica naqaf o jaqaf significa girare intorno, circondare, ma anche percuotere, tagliare, distruggere. Tuttavia non si parla di haqqafot nella Bibbia, ma solo nel Talmud babilonese (Jomà 59a). La Bibbia usa la radice savav che indica girare, circondare, gironzolare, ma anche causare, circuire e assediare. Assediare è prerogativa umana, non certo di un’arca santa, che può solo girare intorno a una città.

Anche i sacerdoti nel tempio di Gerusalemme giravano in tondo per aspergere i quattro angoli dell’altare con il sangue degli animali sacrificati. Girerò intorno al tuo altare (va asovevà et mizbahakha), recita il salmo 26. Il talmud babilonese distingue il giro con la sola mano (haqqafà bejad) da quello con l’intera persona (bereghel). Per aspergere un altare quadrato con un lato di quasi tre metri (cinque cubiti) bisognava camminargli intorno.

Per accedere all’altare i sacerdoti salivano da sud su un piano rialzato (sovev) mediante una rampa (kevesh). Tenendo la destra, senza mai voltare le spalle all’altare, i sacerdoti si dirigevano a est, quindi a nord e infine a ovest, per poi ridiscendere la rampa. Un giro in senso antiorario tipico della tradizione ebraica.

Accade il contrario quando, nell’emisfero boreale, è il sole a muoversi rispetto a un osservatore. Con la faccia ad oriente, si segue il moto apparente del sole da est a sud e infine a ovest. Il giro è a destra ma il senso è orario. Il sud a destra è il luogo della luce e il tenebroso nord è a sinistra. Un senso di rotazione tipico delle culture indoeuropee.

P.S. Pensandoci, mi sono accorto che, pur potendo farlo in entrambi i modi, finisco sempre per ruotare in senso antiorario quando giro attorno all’orrido di Caino o alla valle del torrente Riella, al monte Palanzone o a cima Pozzi del monte Resegone. Anche alle tre cime di Lavaredo prediligo il percorso in senso antiorario, per incontrare meno gente.

domenica 9 maggio 2021

Bob Dylan


 

“Sul pianoforte preferisco i tasti neri.

E gli accordi di diesis e bemolle

suonano meglio anche sulla chitarra”

(Bob Dylan)

 

La scena musicale allora era un mortorio. Non erano ancora comparsi i Beatles o i Rolling Stones. E neppure gli Who. Ero a New York, alloggiavo al Greenwich Village. Suonavo la chitarra e l’armonica. Facevo musica popolare, canzoni che la gente si passa di mano in mano.

 

Non avevo bisogno di sostanze stupefacenti. Qualche altro luogo è sempre a un attimo di distanza da dove sei tu. Non c’è una regola. Non c’è una logica. Per questo la faccenda è così affascinante. Puoi benissimo essere nel pieno delle tue facoltà mentali e fare qualcosa che ti eccita sotto mille punti di vista. Così era per me allora e lo è ancora oggi.

 

Ciò che mi emozionava era l’affondamento di una nave da crociera, il disastro provocato dal passaggio di un ciclone, un Tizio che uccide Caio a colpi di piccone, un Sempronio che spara a un uomo mentre lavora in ufficio. Era questa la vera attualità. E, del resto, non lo è ancora?

 

A quei tempi ero un affarino cencioso. La gente aveva bisogno di un riconoscimento ufficiale prima di ascoltarmi. E il riconoscimento, inaspettato, venne. Una cantautrice famosa, pacifista, impegnata per i diritti civili, seppe apprezzarmi per come ero. E lo fece pubblicamente. Se non l’avesse fatto, nessuno avrebbe sentito parlare di me. Così almeno si dice in giro…

 

Firmai un contratto con un produttore discografico per la più vecchia etichetta del continente. Nella moderna Gomorra mi esibivo nei Cafè prima e dopo comici che ora tutto il mondo conosce. Erano locali, quelli, dove si faceva passare il cappello per raggranellare l’ingaggio. Spesso a farlo era una cameriera che, sotto il cappotto, portava una camicetta abbondantemente aperta sul davanti.

 

Per qualcuno sono stato un profeta, per qualcun altro un poeta come Rimbaud, per altri ancora un simbolo del periodo folk. Io mi sentivo, e mi sento ancora, un menestrello, dall’età di undici anni. Per qualcuno sono stato un predicatore, un pastore di anime. Io ero, e lo sono ancora, una pietra che rotola. Per qualcuno sono stato un grande musicista, una rockstar. Io mi immaginavo, e lo faccio ancora, come un pistolero alla Billy the Kid, un cavaliere solitario.

 

Ho avuto delle fidanzate e non le ho più. Ho avuto una moglie e non l’ho più. Non so molto di me. Mi sveglio e sono una certa persona, ma poi quando vado a dormire sono qualcun altro. Per la maggior parte del tempo non so chi sono. Eppure dentro di me e dentro di te c’è un punto da cui possiamo guardare le cose senza farcene influenzare troppo. Un punto in cui possiamo dare un contributo sulla questione, invece che prendere e solo prendere prendere prendere prendere.

sabato 17 aprile 2021

Il linguaggio degli animali (3/3)

 

C’era una volta un turco, di nome Timur Agha, che stava passando al setaccio paesi e città, villaggi e contrade, alla ricerca di qualcuno che potesse insegnargli la lingua degli animali e degli uccelli... Ora, avvenne che un giorno, proprio perché aveva saputo coltivare le qualità della virilità e della generosità, egli salvò la vita a un vecchio derviscio dall'aspetto fragile che era rimasto appeso alle funi rotte di un ponte di corda, in montagna. “Figlio mio, sono Bahaudin il derviscio”, disse il vecchio, “e ho letto nei tuoi pensieri. D'ora in poi conoscerai il linguaggio degli animali”. Timur Agha promise di non confidare mai il segreto a nessuno e si affrettò a tornare alla sua fattoria. Ben presto si presentò l'occasione di mettere in pratica il suo nuovo potere. Un bue e un'asina stavano discutendo nel loro linguaggio: “Io devo tirare l'aratro”, diceva il bue, “mentre tu non hai altro da fare che andare al mercato. Sei indubbiamente più intelligente di me; consigliami, dunque, perché voglio uscire da questa triste situazione”. “Tutto ciò che devi fare”, rispose l'asina astutamente, “è sdraiarti a terra e simulare un terribile mal di stomaco. Il contadino si prenderà cura di tè perché sei un animale prezioso. Ti lascerà riposare e ti darà del cibo migliore”. Ma Timur aveva naturalmente capito tutto e quando il bue si sdraiò a terra disse ad alta voce: “Questa sera stessa porterò questo bue al macello, a meno che non si senta meglio entro mezz'ora”. Immediatamente il bue si sentì meglio, persino molto meglio di prima! La cosa divertì molto Timur, che si mise a ridere. Sua moglie - che era curiosa e di indole piuttosto arcigna - gli chiese con insistenza il motivo della sua allegria. Ricordandosi della sua promessa, Timur si rifiutò di parlarne. Il giorno dopo si recarono al mercato: la moglie era seduta sull'asina, mentre il contadino camminava al suo fianco e l'asinello li seguiva trotterellando. Il piccolo asino si mise a ragliare e Timur capì che stava dicendo a sua madre: “Non ce la faccio più a camminare; fammi salire in groppa”. La madre rispose, nella lingua asinina: “Sto portando la moglie del contadino, e noi siamo solo animali; questa è la nostra sorte; non c'è nulla che possa fare per te, figlio mio!”. Timur fece immediatamente scendere sua moglie dall'asina per permettere all'asinello di riposare. Si fermarono sotto un albero. La moglie era furiosa, ma Timur disse solo: “Credo che sia ora di riposarci”. L'asina pensò: “Quest'uomo conosce la nostra lingua. Mi avrà sentito parlare con il bue ed ecco perché lo ha minacciato di farlo macellare. Però a me non ha fatto nulla, anzi, ha ripagato l'intrigo con la gentilezza”. Emise un raglio che voleva dire: “Grazie, padrone”. Timur si mise a ridere al pensiero del segreto che aveva, ma la moglie era sempre più arrabbiata. “Credo che tu capisca qualcosa del linguaggio di questi animali”, disse infine. “Chi ha mai sentito dire di animali che parlano?”, chiese Timur. Quando furono rientrati a casa, Timur preparò il giaciglio del bue con della paglia fresca che aveva comprato, e il bue gli disse: “Tua moglie ti assilla! Di questo passo il tuo segreto sarà presto svelato. Se solo te ne rendessi conto, pover’uomo, potresti insegnarle a comportarsi bene e ad evitarti dispiaceri solo minacciandola di frustarla con una bacchetta non più grossa del tuo mignolo”. “Ecco che questo bue che ho minacciato di portare al macello si preoccupa del mio benessere!”, pensò Timur. Così andò da sua moglie, prese una bacchetta e le disse: “Vuoi comportarti bene? Vuoi smetterla di farmi domande anche quando non faccio altro che ridere?”. La donna ne fu molto allarmata, perché il marito non le aveva mai parlato in quel tono; e in seguito Timur non corse mai più il rischio di fare rivelazioni. E fu così che gli fu risparmiata l'orribile sorte riservata a coloro che svelano segreti a chi non è pronto a riceverli.

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