giovedì 22 luglio 2021

Tutto è compiuto (Giovanni 19,25-37)

 

Stavano presso la crocce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre. Maria madre di Cleopa e Meria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. (vv. 25-27)

Con questo testo, chiusa “l’ora dialogata”, si apre l’ora “narrata”. Ci sono ancora parole di Gesù, alle quali seguono gesti altrui, ma non più un dialogo. Siamo sul luogo detto Golgota, che significa cranio, una roccia su cui sono issate le croci di Gesù e di due ladri. Gesù è crocifisso in quello che Cicerone, che assistette dal vivo a molte scene simili, definisce teterrimum supplicium, il supplizio più spaventoso.

In questo evangelo c’è un innominato: è il “discepolo che Gesù amava”. La tradizione parla di Giovanni, uno dei dodici, fratello di Giacomo. Da distinguere dal Giovanni dell’Apocalisse. D’altra parte Giovanni e Giacomo, i figli di Zebedeo, non vengono mai menzionati. C’è una specie di “affinità elettiva” tra Gesù e questo discepolo. Due outsider, due “voci fuori dal coro”.

Ad eccezione dell’amato, non ci sono altri discepoli sotto la croce, o meglio non ci sono uomini. Il numero delle donne appartenenti al gruppo di Gesù è incerto. A seconda della punteggiatura potrebbero essere quattro, tre o persino due. Due: 1. sua madre e 2. la sorella di sua madre, (ovvero) 1. Maria di Cleopa e 2. Maria di Magdala. Tre: 1. sua madre, 2. la sorella di sua madre (ovvero) Maria madre di Cleopa, e 3. Maria di Magdala. Quattro: 1. sua madre, 2. la sorella di sua madre, 3. Maria di Cleopa e 4. Maria di Magdala. Secondo i sinottici le donne della Galilea rimasero a Gerusalemme per la sua morte, ma si tennero a distanza dal luogo del supplizio. Giovanni le colloca invece sotto la croce insieme al discepolo anonimo. Qui avviene il duplice affidamento.

In greco quel “l’accolse con sé” letteralmente suona “la prese a casa propria”. Troviamo la stessa espressione in altri due passi-chiave del vangelo di Giovanni. “Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (16,32). I discepoli hanno lasciato solo il Signore e Maestro andandosene ciascuno “a casa propria”. Questo aveva temuto e preannunciato loro Gesù. “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (1,11). Nel prologo Giovanni narra che il Verbo si fece carne e venne ad abitare “a casa propria”. Segue una tragica storia di abbandono e rifiuto che motiva quel “e i suoi non l’hanno accolto”. Ma alla fine della narrazione ecco che un figlio spirituale capovolge questa storia e dà inizio a una comunità di credenti sotto la croce. Questa è la chiesa.

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. ^°Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. (vv. 28-30)

Sono queste le ultime parole di Gesù sulla croce. La prima: “Ho sete”. La bevanda viene offerta a Gesù su un ramo di issopo. Tradizionalmente questa pianta era usata nelle purificazioni, in rametti riuniti come un aspersorio. Questo dell’issopo è un particolare esclusivo di Giovanni. “Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve” (Salmo 50,9). Così prega Davide dopo che Natan gli ha ricordato che per godersi Betsabea ha messo a morte il marito Uria. “Prenderete un fascio di issopo, lo intingerete nel sangue che sarà nel catino e spalmerete l’architrave ed entrambi gli stipiti con il sangue del catino. Nessuno di voi esca dalla porta della sua casa fino al mattino” (Esodo 12,22). C’è nel particolare di Giovanni un chiaro richiamo all’alleanza tra Dio e Israele celebrata nella Pasqua ebraica. Diversamente dai sinottici Gesù beve per lenire la sete e la sofferenza. Si dimostra così pienamente uomo.

L'issopo corrisponde a decina di specie di piante native del Mediterraneo orientale e dell’Asia centrale. Sono piante aromatiche, con gambi ramificati eretti di lunghezza fino a sessanta centimetri. Le foglie sono lunghe e strette. Un piccolo fiore azzurro cresce nella parte superiore dei rami durante l'estate. La parola issopo deriva dal greco e corrisponde all’origano in ebraico. La canna di issopo utile come sostegno è lunga trenta centimetri. Se ne aggiungiamo altri trenta di braccio, ne deduciamo che la traversa della croce non era così alta come pensiamo, ma che la testa di Gesù si trovava a circa due metri e venti da terra. Un uomo dunque molto terrestre e molto poco divino sulla croce. Polvere che torna ad essere polvere. Un adamo, in ebraico adàm, che fa ritorno alla terra del suolo, in ebraico adamàh. Assumendo fino in fondo la condizione umana, Gesù accetta di morire come uno schiavo per lasciare che Dio lo liberi come già fece con gli ebrei schiavi in Egitto.

La seconda parola: “È compiuto”. Non nel senso di finito, terminato, concluso, ma di completato. Cosa? L’opera che Dio ha affidato a Gesù. “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (4,34). Così rispose Gesù, dopo rincontro con la samaritana, ai discepoli che lo invitavano a prendere cibo. “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (17,4). Così Gesù si rivolse al Padre, al termine di un lungo discorso, dopo la lavanda dei piedi. Qual è quest’opera? Mostrare ai suoi amici l’amore di Dio, fino alla fine, oltre la Pasqua. “Dio non è un’evidenza”. Gesù di Nazaret è l’uomo venuto ad “aiutare Dio” a farsi vicino alle sue creature. Gesù è venuto a mostrare Dio.

Morendo Gesù emette l’ultimo pneuma, parola greca che può significare respiro, ma anche Spirito. A Giovanni piace giocare con le parole, spargere ovunque simboli di una realtà diversa, come nell’aramaico talya che può significare sia agnello sia servo. Qui Gesù anticipa quel “ricevete lo Spirito Santo” che proclamerà apparendo ai discepoli dopo la risurrezione (20,22).

Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpi il fianco, e subito ne usci sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto. (vv. 31-37)

“Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità” (Deuteronomio 21,22-23). Non sempre le famiglie disponevano del cadavere del condannato. Il precetto biblico non veniva quindi osservato regolarmente. Tuttavia la preparazione della Pasqua, parasceve in greco, rendeva urgente rimuovere il corpo.

L’usanza romana del crurifragium, la rottura delle gambe, può essere letta sia come un atto di crudeltà sia di pietà. Affrettava la morte dei condannati, sospesi alla croce per ore o giorni, con un cuneo tra le natiche o sotto i piedi. La rimozione del supporto provocava il collasso degli organi interni. Quello del soldato fu un atto di crudeltà, un gesto scrupoloso o un colpo di grazia? Gesù tuttavia era già morto. “Molti sono i mali del giusto, / ma da tutti lo libera il Signore” (Salmo 34,20). Colpisce che Gesù resti vivo sulla croce per un tempo piuttosto breve.

Nella Mishnà, la prima codificazione della tradizione orale, si parla del sacrificio degli agnelli pasquali. Il sangue doveva essere raccolto in catini d’oro e d’argento e gettato contro la base dell’altare. In particolare veniva mischiato con acqua per evitare che si rapprendesse (Pesachim 5). Giovanni certo aveva in mente questo rito quando vide uscire dal fianco di Gesù sangue e acqua.

“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (6,54). “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (4,14). Il rivolo misto, sangue e acqua, che esce dal fianco di Gesù dona la salvezza a chi crede. Questa è la testimonianza di Giovanni. Alcuni Padri della Chiesa scriveranno che l’acqua è simbolo del battesimo e il sangue dell’eucaristia. Le icone ortodosse raffigureranno sacerdoti che raccolgono in catini il sangue che sgorga dal fianco di Gesù. Il soldato diverrà san Longino il lanciere che ha fa sgorgare il ruscello apportatore di vita. Il mondo dei simboli è questo: da un’immagine, Gesù come agnello, ne scaturiscono infinite altre.

“Non ne serberanno alcun resto fino al mattino e non ne spezzeranno alcun osso” (Numeri 9,12). Cosa comporta il compimento dell’ora di Gesù? “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito” (Zaccaria 12,10). Cosa rimane dell’agnello immolato sulla croce? Chi ha trafitto l’agnello, ora lo piange come un figlio, ma domani (oggi per noi) rischia di dimenticarlo. L’ora di Gesù è la salvezza, che si è data una volta per sempre, in un uomo per tutti. Questo è il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù il Cristo, il Dio della croce. Non una morte senza speranza. Non una vita senza la morte. Ma grazia e consolazione in vita e in morte.

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