Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò; «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire. (vv. 28-32)
Il processo religioso a Gesù si risolve in soli sei versetti. A presiederlo non è neppure il sommo sacerdote in carica: Caifa. Gesù compare davanti al suocero della massima autorità religiosa ebraica: Anna. In Giovanni il dialogo tra Gesù e Pilato è ampio e importante. L’udienza politica è molto più sviluppata che nei sinottici e raggiunge i ventinove versetti. Un’occasione per mettere in risalto la verità sullo sfondo scuro di una sentenza iniqua.
Il processo romano si tiene la mattina presto. Il pretorio è il quartier generale della guarnigione romana. Forse era nel palazzo di Erode, forse presso la fortezza Antonia, vicina al tempio. Pilato in realtà risiedeva nella città portuale fortificata di Cesarea. Si trasferiva a Gerusalemme solo in occasione delle grandi feste di pellegrinaggio per sedare eventuali tumulti.
Pilato è un funzionario imperiale dell’ordine equestre. Ricoprirà la carica di prefetto della Giudea dal 27 al 36 d.C. alle dipendenze del legato senatorio di Siria. Lo storico Giuseppe Flavio è un ebreo convinto che l’imperatore romano sia il messia atteso da Israele. È perciò una fonte attendibile quando riferisce che Pilato aveva un carattere intransigente e prepotente.
Gli storici moderni concordano sulla totale partecipazione imperiale alla morte di Gesù. La condanna ha ragioni più politiche che religiose. Gesù morirà innalzato sulla croce e non lapidato a terra. Gli evangelisti invece minimizzano la parte attiva avuta dai romani. D’altro canto ingigantiscono le responsabilità delle autorità ebraiche. Un atteggiamento comprensibile in momenti di persecuzione dei cristiani da parte dell’impero.
Ancora oggi gli ebrei compiono le cosiddette “pulizie di Pasqua” il giorno della vigilia. In realtà si tratta di una ricerca dei resti di alimenti lievitati che saranno poi bruciati. Il lievito simboleggia l’orgoglio che va distrutto nel momento in cui ci si appresta a ricevere in dono da Dio una nuova liberazione dalla schiavitù. Giovanni fa dell’ironia amara sui credenti che rispettano i precetti della loro religione e, allo stesso tempo, mettono a morte una persona.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose; «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse; «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo: se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». (vv. 33-38)
Finora Gesù è stato chiamato “re d’Israele”. Un titolo che faceva riferimento all’intero popolo secondo la fede. Un equivalente di Messia in quanto “unto”. Un termine dal significato sia politico che religioso. Ambiguo per i romani che consideravano i “figli d’Israele” un’unità più religiosa che politica. Aiutati in questo anche dai molti partiti ebraici esistenti al tempo di Gesù e dalla dialettica interna all’ebraismo. Ora appare il titolo “re dei giudei”. Lo stesso che sarà anche sulla croce di Gesù in tre lingue: greco, latino, ebraico. Caratteristica di questo evangelo è parlare a tutti e non dipendere da nessuno.
La Galilea e la Perea, le altre regioni ebraiche, avevano già un re ebreo: Erode Antipa. Ecco perché Pilato, il governatore della Giudea, è preoccupato per la minaccia al suo potere. Gesù è un pretendente al titolo politico di re della Giudea o al titolo religioso di sacerdote d’Israele? Pilato lo chiede a Gesù in modo esplicito: sei tu il re dei giudei?
Il regno di Gesù non è di questo mondo. Gesù è nato per testimoniare questa verità. Gesù tuttavia vive in questo mondo e parla a Pilato. Il regno di Gesù proviene da altrove, da Dio, ma dimora nel mondo. Per questo motivo Gesù chiede a Pilato di regnare secondo la verità e non secondo le leggi dell’impero romano. Ma cos’è la verità?
La verità è che c’è un altro modo di essere re, è possibile un altro regno, diverso da quello di Pilato. Il regno di Dio, appunto, un regno di misericordia. Quello di Pilato è il regno del potere. Quello di Gesù è il regno della mitezza e della croce. I regni di questo mondo comandano, ordinano, impongono. Gesù testimonia. Nessuno scontro tra chiesa e stato. Pilato è solo un mezzo di contrasto per far meglio risaltare la realtà di Dio.
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante. (vv. 39-40)
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo! ». (vv. 1-5)
Ancora l’ironia amara di Giovanni. Barabba è un nome che deriva dall’ebraico “bar abbàs” che significa “figlio del padre”. Barabba è colpevole, secondo le leggi romane, di sovversione. Eppure viene liberato al posto di Gesù. Ovvero di quel “figlio” che era solito, in preghiera, chiamare “padre” il suo Dio. Quell’uomo che faceva della preghiera l’unica sua arma.
La sentenza non è stata ancora pronunciata e Gesù già viene flagellato e ridicolizzato. Ecco l’innocente spezzato dal dolore. Ogni essere umano - da Caifa che non lo riceve ad Anna che lo interroga, dai giudei che lo arrestano ai romani che lo percuotono e a Pilato che lo consente - è complice dei male. La verità testimoniata da Gesù ha due facce. Questa, la faccia umana, spaventa.
L’altra faccia, quella divina, consola. Ecco. Dio che soffre ma rimane saldo nel suo proposito di salvezza. Ecco Dio incatenato ma, nelle catene, immensamente libero. Ecco Dio percosso ma, nella sofferenza, capace di amare ancora, Dio che non rende il male per male, che restituisce il bene per il male, che trasforma il male in bene. Questa è l’altra faccia, la faccia che consola, il volto della verità. La speranza per l’umanità.
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!», Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo: io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo ima Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio». (vv. 6-7)
Una legge biblica vieta di maledire Dio (Levitico 24,16). Una pagina della Mishnà configura il reato di pronuncia del nome di Dio (Sanhedrin 7,5). Ma è curioso che l’accusa di bestemmia venga rivolta a Gesù di fronte a Pilato e non al sommo sacerdote.
La verità è che non c’è ragione per condannare Gesù. Per questo si moltiplicano le accuse: malfattore (18,30), re dei giudei (18,33), figlio di Dio (19,7). E’ sempre l’ironia amara di Giovanni.
All’udire queste parole. Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande». (vv. 8-11)
È tutto uno scambio: sinedrio e pretorio, giudei e romani. Barabba e Gesù. Pilato è in agitazione. Esce e rientra per tre volte dal pretorio. Quello che gli sta davanti è un imputato diverso da tutti gli altri. Una persona abitata da un mistero che non riesce a decifrare. Per questo vorrebbe liberarsene liberandolo.
Per rendersi conto della verità, per accorgersi che “il re è nudo”. Pilato dovrebbe specchiarsi nell’altro re che gli sta davanti: Gesù. Un uomo percosso e umiliato, flagellato e sanguinante, coronato di spine e coperto di lividi. Ma proprio questo Pilato si rifiuta di fare. Teme di mettere in pericolo il suo potere. Per questo Pilato è una figura tragica e ambigua. Il potere gli è dato dall’alto (il legato di Siria) o dal basso (gli oppositori dì Gesù). Nei confronti di Gesù ha persino meno potere di Giuda.
Nello stesso tempo però è anche un testimone di Gesù. Lui stesso, che lo condanna, attesta su Gesù delle verità profondissime. Lui, che chiede cos’è la verità, la esprime in maniera limpida: ecco cos’è l’essere umano. E, d’altro canto, il dubbio che dietro/dentro a quest’uomo si cela non solo il re dei Giudei o dell’umanità, ma dell’intero creato.
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