Il primo giorno della settimana. Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. (v. 1)
Il primo giorno della settimana, che corrisponde alla nostra domenica, è per gli ebrei una specie di “lunedì”, un giorno feriale, l’inizio di una settimana lavorativa. Gesù muore alla vigilia di Pesach e risorge a festa abbondantemente conclusa. In greco questo giorno è kyriaké da Kyrios, in latino dominica da dies Domini, il giorno del Signore risorto da morte.
Non è Maria, la madre di Gesù, ad accorrere per prima al sepolcro. Un particolare, che colpisce. Al punto che la devozione dell’epoca patristica — a cominciare da un poema di Sedulio del 392 ca - immagina una prima apparizione di Gesù alla madre che nella Bibbia non c’è.
Giovanni attribuisce a Maria di Magdala un primato evangelico: è stata la prima ad arrivare al sepolcro. Era ancora buio e, mentre gli altri dormivano, lei era già sveglia. Ciò manifesta l’intensità del suo rapporto con Gesù.
La rimozione della pietra è avvolta dal mistero. Maria esprime il timore che il sepolcro sia stato saccheggiato, un crimine molto comune all’epoca, e il corpo di Gesù trafugato e gettato chissà dove.
Il momento è assai significativo: Gesù è risorto tra le tenebre e la luce perché la risurrezione è trasformazione delle tenebre in luce.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». (v. 2)
Maria, secondo la tradizione, è la Maddalena. Questo non è veramente il suo nome, è un aggettivo derivato da Magdala, una cittadina sulla costa occidentale del Mar di Galilea. La tradizione ha identificato Maria con la prostituta che silenziosamente entra in casa di Simone, si mette a piangere, bagna con le sue lacrime i piedi di Gesù, li lava, li unge con olio preziosissimo (Luca 7,36-50). L’identificazione delle due Marie non è fondata sui testi.
Anche Maria, come la prostituta, piange (20,11). Negli evangeli queste sono le uniche lacrime versate su Gesù. C’è un altro pianto famoso: quello di Pietro. Ma egli piange su se stesso, non su Gesù, piange sul proprio rinnegamento. Queste due donne hanno un forte sentimento di amore nei confronti di Gesù.
Maria era stata risanata da Gesù e da allora era diventata sua discepola. Poteva poi anche esserne innamorata in fondo. Tutte queste dimensioni dell’amore - gratitudine, ammirazione, affetto - spesso sono impossibili da distinguere l’una dall’altra. Senza dubbio sono tutte componenti della forza che la spinge per prima verso il sepolcro vuoto.
La presenza è il segno più autentico dell’amore. Essere vicini a qualcuno, anche nel silenzio, è il modo più esplicito di mostrare interesse per una persona. Maria sa benissimo che Gesù è morto, sa dunque che troverà soltanto il corpo di Gesù, ma ugualmente non vuole perdere neppure un minuto. Si reca al sepolcro per poter gioire, sia pure in mezzo alle lacrime, della presenza di questo corpo.
Anche gli altri evangelisti narrano delle donne al sepolcro, ma per Giovanni c’è solo Maria di Magdala. Che arriva al sepolcro camminando e se ne va di corsa. Sospinta dalla speranza.
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli cosati là, ma non entrò. (vv. 3-4)
Anche Giovanni e Pietro, come Maria, corrono. C’è qui un primato atletico di Giovanni legato forse anche all’età. Ciò indica anche un primato affettivo che tuttavia, al momento di entrare nel sepolcro, lascia spazio al primato effettivo di Pietro. Non possiamo parlare di un primato d’onore perché, mentre Giovanni stava sotto la croce (19,26), Pietro era impegnato a negare a destra e a manca di essere un discepolo di Gesù (18,27).
Secondo alcuni il sepolcro era formato da una sola camera nella quale vi erano due piani per appoggiare i corpi. Secondo altri invece il corpo di Gesù era stato deposto nell’anticamera in attesa di poter ultimare, una volta passato il sabato, la preparazione della salma per il seppellimento definitivo. “Trenta chili di una mistura di mirra e di aloe” (19,39). Una cosa è certa: se Gesù è morto da malfattore, la sua sepoltura, con gli aromi e la tomba nuova (19,41), è quella di un maestro in Israele.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. (vv. 6-7)
Sono devianti le usanze di sepoltura dell’Egitto, assai diverse da quelle ebraiche, con grandi bende o fasce a modo di mummia. I sinottici parlano di un avvolgimento dei corpo in una sindon. Luca aggiunge gli othonia ovvero i panni. Gli othonia sono tele, panni o pezze di stoffa, probabilmente di lino. “Lo avvolsero con teli, insieme ad aromi” (19,40). Potrebbe trattarsi di pezze grezze oppure di parti di un manufatto d’abbigliamento quale una tunica mortuaria.
Giovanni menziona i panni e il soudarion. Una specie di grande fazzoletto che veniva posato sul volto del defunto. Non fa cenno invece alle keiriai che legavano le mani e i piedi di Lazzaro (11,44). Certo i panni e il sudario contrastano con il lenzuolo. Soprattutto il lenzuolo renderebbe inutile il sudario.
Pietro arriva, entra e vede, oltre ai teli, il sudario avvolto su se stesso. Il morto non è stato trafugato lasciando il tutto in disordine. I teli che avvolgevano Gesù sono posati a terra - da notare la triplice ripetizione - e il sudario che gli copriva il volto è ripiegato dalla mano del risorto. Un atto di potere di una vita ritrovata. I “lacci di morte” sono sciolti. Pietro si limita ad osservare.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli perciò se ne tornarono di nuovo a casa. (vv. 8-10)
L’amore affina la sensibilità e sviluppa una comprensione particolarmente acuta. Per comprendere fino in fondo qualcuno è necessario l’amore. Per questo Maria è la prima a intuire e Giovanni il primo a credere. L’evangelista usa la terminologia familiare, vedere e credere, per lodare il discepolo che Gesù amava per aver creduto in Cristo risorto dopo aver visto la tomba vuota. Ora si tratta di comprendere il messaggio delle Scritture d’Israele ovvero che Gesù è risorto dai morti (2,22; 7,39; 10,6).
“Venite, ritorniamo al Signore: / egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. / Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. / Dopo due giorni ci ridarà la vita / e il terzo ci farà rialzare, / e noi vivremo alia sua presenza. / Affrettiamoci a conoscere il Signore, / la sua venuta è sicura come l’aurora. / Verrà a noi come la pioggia d’autunno, / come la pioggia di primavera che feconda la terra” (Osea 6,1-3). In realtà tutte le Scritture d’Israele ci narrano di Dio come di un vivente che dona la vita a tutto ciò che vive. La vita oltre la morte non è dunque riservata al solo Messia, ma promessa all’intero popolo di Dio.
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. (vv. 30-31)
Prima della revisione finale questa era probabilmente la conclusione dell’evangelo di Giovanni. Una conclusione anche del “libro dei segni”. La risurrezione è il sigillo dei segni registrati da Giovanni. Non tutti i segni sono stati scritti: Dio sfugge alle nostre definizioni.
I segni non valgono per se stessi. Le parole non valgono per se stesse. Le parole illustrano i segni. I segni indicano la realtà di Gesù. Il Signore è l’oggetto della fede. E dona la vita nel suo nome. Ovvero una vita piena. Liberata dall’ombra della morte. Che si esprime nella gioia. Oggi e sempre.
Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. (vv. 24-25)
Quest’ultimo capitolo presenta differenze nel vocabolario e nello stile narrativo. Forse il rapporto tra Giovanni e Pietro nell’evangelo è stato motivo di preoccupazione per la comunità e ha bisogno qui di una riconciliazione. Giovanni ha certo visto ciò che ha raccontato. Probabilmente non ha scritto l’evangelo in prima persona. Ciò non toglie che egli fu testimone e garante di ciò che ha raccontato e, in qualche modo, sia l’autore di questo evangelo.
Da ciò deriva una suggestione per noi oggi. Ciascuno di noi è chiamato a scrivere il proprio evangelo. Un resoconto analogo a quello di Giovanni e capace di rendere testimonianza di ciò che Gesù ha fatto e fa per noi attraverso lo Spirito. Il mondo, che è in grado di contenere tutta l’umanità passata, presente e futura, non sarebbe in grado di contenere tutti i libri che ciascuno di noi potrebbe scrivere.
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