Matteo colloca questo episodio tra la trasfigurazione di Gesù e il suo ingresso a Gerusalemme. Gli fanno da cornice anche il secondo e il terzo annuncio della passione. Gesù è dunque nella sua terra di origine, la Galilea delle genti (Isaia 8,23), a Cafarnao, sulla riva occidentale del lago di Tiberiade.
Pietro si avvicina a Gesù. Forse ha subito un affronto da un altro discepolo e non sa come comportarsi. Forse vuole solo tornare su quanto Gesù aveva appena detto. Se tuo fratello commette una colpa contro di te, ammoniscilo. Se ti ascolterà, l’avrai guadagnato (v. 15). Ma quante volte? Forse Pietro ha in mente il profeta Amos: Dio ha perso la pazienza, tre misfatti sono tanti, ma quattro sono troppi (cc. 1-2). Così, con uno slancio di generosità, suggerisce la totalità del sette, come i giorni della creazione.
Gesù risponde con un’espressione che in greco può suonare settanta più sette, settantasette, o settanta per sette, quattrocentonovanta. Un numero simbolico. Settanta anziani stavano per l’intero Israele, settanta popoli per l’intera umanità. Ma subito, forse per anticipare le obiezioni, le stesse che faremmo anche noi, Gesù comincia a narrare. Perché i numeri, presi alla lettera, sono aridi, ma una parabola, così vicina alle dinamiche dell’esistenza, coinvolge e disorienta, per poi riorientare.
Ben sapendo che una parabola non è un’allegoria. Non è un concetto astratto (Dio) reso con un’immagine concreta (il re). Sullo sfondo di questa parabola, per esempio, c’è la pratica dell’usura dei re dell’antico Oriente. Ricordate la parabola del servo pigro? Il padrone, al ritorno da un viaggio, regola i conti con i servi. Chi ha ricevuto un solo talento, per paura, l’ha sotterrato. E il padrone lo punisce (Matteo 25,14-30). Siamo assai lontani dal Dio di Gesù.
Dunque il regno dei cieli è come un re che fa i conti con i suoi servi. Nel nostro testo il termine servo/i compare nove volte in quindici versetti. Noi ne abbiamo udite solo cinque, ma altre quattro sono nascoste dietro il sostantivo compagno. Il protestante Diodati, fedele al testo greco, lo traduce conservo. Il re viene nominato sei volte. La parabola quindi mette a fuoco anzitutto la figura del servo.
Entrambi i servi della parabola si distendono a terra. Implorano affinché li si perdoni.
Il termine servo (doùlos) è ambivalente. Se la libertà personale è il bene supremo, la condizione di servo è degradante. Così era per gli antichi greci e così è ancora per noi oggi. Servo come sinonimo di schiavo. Se invece il servito è un re, allora l’incarico è ambito. Come nell'antico oriente. Servo sinonimo di ministro.
Qualcosa di analogo accade oggi con il sostantivo segretario/a. Pensiamo alle Nazioni Unite. L’organo che detiene il potere è il Consiglio di sicurezza, ma il vero leader dell’Onu è il Segretario. Viceversa molte organizzazioni considerano la segreteria una servitù anziché un servizio. O, tutt’al più, la tenuta delle cose segrete. Per uscire da questa logica il dirigente deve fidarsi dei segretari, rispettarli, consentire loro di agire in libertà e con responsabilità. Mosè, Davide, Elia, Giobbe e persino Gesù (cf Filippesi 2,7) sono le figure di servi (‘evèd) che la Bibbia ci propone.
Per non confonderci distinguiamo tra i servi della parabola. Il primo, quello graziato dal re, lo chiameremo servo. Il secondo, gettato in prigione, d’ora in poi lo chiameremo conservo. Il debito del servo è di diecimila talenti. Quello del conservo è di cento denari. Un denaro era il salario giornaliero di un operaio. Il talento invece non era una moneta, bensì una misura di peso. Quando le monete erano troppe venivano pesate per evitare di contarle. Un talento poteva corrispondere a seimila denari.
Proviamo a rapportarli ai nostri soldi. Un operaio che guadagna mille euro al mese ha una paga giornaliera dì circa cinquanta euro. Ciò significa che il debito del conservo potrebbe essere di cinquemila euro. Su questa base il debito del servo sarebbe di tre miliardi di euro, venti volte la più grande vincita di sempre al superenalotto, una cifra che molte persone non sono neppure in grado di immaginare, tantomeno di guadagnare nell’arco di una vita lavorativa. Il debito del servo è abnorme, mette a repentaglio la sua vita e quella dei suoi familiari, un po’ come accade oggi alle vittime dell’usura o del gioco d’azzardo.
E’ qui che la parabola rivela un particolare inquietante. Il servo non capisce. Abbi pazienza con me - dice al re - e ti restituirò ogni cosa. Si illude di poter ripianare il suo debito con un comportamento radicale, rastrellando d’ora in poi ogni centesimo, a cominciare dal primo debitore che incontra, il conservo appunto. Cambia tutto per non cambiare nulla. L’incontro con la misericordia del re è stato inutile per lui.
Ben diverso è l’amministratore disonesto della parabola di Luca. Ricordate? Tu quanto devi al mio padrone? - Cento barili d’olio - Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta - Tu quanto devi? - Cento misure di grano - Scrivi ottanta (16,1-13). Destituito dalla sua carica, rinuncia alle sue provvigioni, va’ incontro ai debitori, riduce loro il passivo e si acquista simpatia e benevolenza.
Prendiamo atto che, in una logica contabile, il nostro debito nei confronti di Dio è insanabile. Comprendiamo che l’unica nostro risposta adeguata è rimettere i debiti ai nostri debitori. Come del resto ripetiamo nella preghiera ogni giorno.
Invece la pretesa del servo è di potersi guadagnare il Regno dei cieli, meritarselo, conquistarlo persino. Gesù ci insegna che solo chi sa di non esserne degno - e per questo perdona gli altri, perché negli altri vede se stesso, con il suo fardello di fatiche e di errori - solo costui potrà entrare nel Regno. Anzi il Regno è già in lui.
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