Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me?Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». (vv. 1-5)
Cana è un villaggio senza importanza - non compare nelle Scritture ebraiche - nel nord d’Israele. In Galilea, al contrario che in Giudea, Gesù è accolto ovunque (unica importante eccezione è la sinagoga di Cafarnao). La festa si è arenata, è in secca, non c’è più un goccio. II vino che “da’ forza alle fanciulle” (Zaccaria 9,17) è - con l’olio e il grano - un simbolo della redenzione (Geremia 31, 12). Maria, nell’evangelo di Giovanni, non è mai chiamata col suo nome: è sempre “la madre di Gesù” (2,12; 6,42; 19,25 - 27) o la “donna” (19,26).
Gesù risponde con la frase biblica del rifiuto. Il giudice Iefte manda un messaggio al re degli Ammoniti: “Che cosa c’è tra me e te, perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?” (Giudici 11, 12). Ad Abisai, che vuole decapitare Simei del casato di Saul, Davide risponde: “Che ho io in comune con voi, figli di Seruià? Se maledice, è perché il Signore gli ha detto: Maledici Davide!” (2 Samuele 16, 10). La vedova di Sarepta, quando il figlio smette di respirare, incalza Elia: «Che cosa c’è tra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?» (1 Re 17, 18).
Difficile scorgere qui devozione filiale. A meno di considerare Gesù come il secondo dei due figli della parabola: “Va’ oggi a lavorare nella vigna. Non ne ho voglia. Ma poi ci andò” (Matteo 21, 28 - 32). Nella comunità cristiana i vincoli di sangue non hanno un’importanza primaria. Il padre di Gesù è Dio. Anche il matrimonio sembra più che altro un pretesto.
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. (vv. 6-8)
Perché le anfore sono sei? Sette è il numero della completezza... Le mani e i piedi impolverati dei viaggiatori chiedono acqua. Le abluzioni sono un precetto della fede ebraica. L’acqua è il grande elisir della Bibbia. Basta vivere in un paese arido anche solo per poco, per cogliere la forza del simbolo della sete e della sua estinzione.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua - chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». (vv. 9-10)
I poveri bevevano poco vino e mangiavano ancor meno carne. Il loro vitto era: formaggio, pane, olio di oliva e acqua. Solo in occasione di un matrimonio i genitori risparmiavano ogni centesimo per molto tempo, pur di poter organizzare una bella, ricca festa.
Nei sinottici Gesù vede un bisogno reale e aiuta, guarisce, libera (azione liberatrice). Giovanni, piuttosto, addita una realtà nascosta che trascende il gesto (portata rivelatrice del miracolo). Si sottrae al miracolismo, alla ricerca del miracolo per sé stesso, all’identificazione di un prodigio con Dio. Chi si ferma lì non coglie l’essenziale. Anzi il miracolo a volte diventa un capo d’accusa (cf le autorità giudaiche alla risurrezione di Lazzaro), uno scandalo. Perché la dove nasce la fede, germina anche l’incredulità.
Sei brocche, seicento litri di vino, una folla già euforica di contadini. Solo un pazzo - o un ubriacone - può raccontare un episodio del genere. Alcuni scritti rabbinici, nel descrivere i giorni del Messia, contrappongono all’acqua presente, il vino futuro. Il talento dell’evangelo di Giovanni è questa continua spola da un mondo a un altro, da un’epoca alla prossima.
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. (v. 11)
Come reagisce una folla euforica a un miracolo così grande? Giovanni mantiene il segreto. L’avvenimento è realtà soltanto per la madre e i discepoli. Possiamo considerare questo il primo segno dell’evangelo di Giovanni? A questo seguiranno le guarigioni del figlio del funzionario di corte a Cafarnao (4,46b - 53) e dell’infermo presso la vasca di Betzatà a Gerusalemme (5,1-18), la moltiplicazione del pane sulla riva del lago di Galilea (6,1 - 15) e la guarigione del cieco nato (9,1- 34), la risurrezione di Lazzaro (11, 17 - 44); tutti segni per la folla. Infine la lavanda dei piedi (13, 1 - 20), altro segno per pochi intimi, che, come Cana, ma anche come Lazzaro, sono racconti esclusivi di Giovanni. Che utilizza del materiale che gli altri evangelisti non avevano utilizzato.
Il primo segno veramente pubblico di Gesù è nel brano che segue il nostro: la purificazione del tempio. “Corregge” una certa visione. La purificazione del tempio è posta all’inizio e non alla fine dell’evangelo. Giovanni è un “riformatore”. Gesù scaccia venditori e cambiavalute, e alla domanda “quale segno ci mostri?” con questi gesti, risponde “in tre giorni farò risorgere” questo tempio (2, 13 - 22). Gesù porta la risurrezione, l’unico vero, grande cambiamento in questo mondo segnato dalla morte. In fin dei conti il luogo di Dio, il suo tempio, è il sepolcro vuoto.
Credere in Gesù il Cristo significa vivere una vita dentro a una vita: nulla è cambiato, ma tutto è cambiato. Ciò che prima era acqua ora è vino. La parola è diventata carne. Un’ora che non è ancora venuta è già qui. Silenziose parabole di un cambiamento cosmico. Ci deve essere novità di vita nei molti luoghi dove i cristiani si riuniscono, altrimenti questa storia finirà per essere solo un’oziosa favola per le sere d’inverno.
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