Una laicità radicale
Nei primi anni ’90 l’ebrea genovese Liana Millu viene chiamata dal card. Carlo Maria Martini a rendere testimonianza a una Cattedra dei non credenti significativamente intitolata: Chi è come te fra i muti? L'uomo di fronte al silenzio di Dio. La Millu, reduce dal campo nazista di Birkenau, testimonia: “Dove c'è una forza potente e brutale, tesa senza requie a distruggere l'essere umano - badiamo bene, nell'animo prima ancora che nel corpo -, dove c'è una simile forza, l'unico modo per resistervi rimanendo umani è avere una controforza, è difendersi con l'armatura morale di una fede. Dicendo fede, intendo sia la fede religiosa sia la fede laica sia la fede politica. Nel lager c'era la compresenza di questa fede. Della fede religiosa si conoscono epifanie commoventi e io stessa potrei testimoniare di quelle viste proprio con i miei occhi, vicine a me. Della fede politica, leggendo i documenti, sappiamo che operò una resistenza in mezzo a pericoli atroci perfino nei lager, e ciò testimonia quanto adamantina potesse essere. Infine, la fede laica, che fu anche di Primo Levi. La fede laica faceva nella mente, nell'anima, un baluardo, un bunker inviolabile alle brutalità e alle abiezioni che circondavano, un rifugio dove conservare l'idea, il concetto di tutte quelle cose che illuminano la vita civile, che rendono la vita civile'" (Garzanti, Milano 1993).
La laicità del chimico torinese è a tal punto radicale che, per esempio, parlando del legame tra gli umani e la natura, Levi si esprime così: “Non penso a niente di metafisico. È un’idea vecchia come il mondo. C’è in Pitagora, in Lucrezio. Del resto, i padri della chimica del secolo scorso ci hanno insegnato che l’ossigeno che respiriamo viene dalle piante e la sostanza delle piante, il legno, viene dall’anidride carbonica che noi e tutti gli altri animali emettiamo durante la vita e dopo la morte”. Questo sguardo disincantato sul mondo lo rende un intellettuale atipico. Levi, nel libro I sommersi e i salvati, rimprovera allo scrittore Jean Améry, autore di Intellettuale ad Auschwitz (Bollati Boringhieri, Torino 1987), di avere un’idea stereotipa di intellettuale. Scrive Levi al suo ingresso ad Auschwitz: “il mio senso di umiliazione per il lavoro manuale era moderato... Avevo una laurea, certo... la mia famiglia era stata ricca abbastanza da farmi studiare”. Un’opinione che qualche giorno dopo vacilla: “quando le mani e i piedi mi si sono coperti di vesciche e infezioni (ho pensato); no, neanche sterratori non ci si improvvisa”. E tuttavia sono proprio le occupazioni quotidiane ad allontanare da lui il pensiero della morte: “avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po’ di pane, a scansare il lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare una scopa, a interpretare i segni e i visi intorno a me”.
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