lunedì 24 maggio 2021

Primo Levi. Questo è un uomo (3/6)

 


Un mestiere supplementare

L’avventura del lager non ha distrutto Levi né fisicamente né mentalmente, non ha annientato la sua famiglia, non l’ha privato di patria casa e lavoro. Anzi alla sua professione di chimico ha aggiunto il lavoro supplementare dello scrivere. Al ritorno da Auschwitz egli aveva una carica narrativa addirittura patologica, altrimenti non gli sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la fabbrica per mettersi a fare lo scrittore a tempo pieno. Avrebbe avuto paura del salto nel buio, di perdere il diritto alla pensione. In Conversazioni e interviste afferma: “Che non tutti i lavori sono piacevoli è una verità triste e ovvia. Sarebbe bene per l’individuo e la società che il lavoro scelto possa divenire gradevole. Chi ci riesce ha qualche probabilità di conoscere almeno saltuariamente la felicità”.

Primo Levi fatica a ritornare di persona sui luoghi della sua prigionia e preferisce farlo rievocando quei luoghi attraverso la scrittura: “I Lager nazisti sono stati l'apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c'era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale, in tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell'Uomo, e l’uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel loro campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti”.

Levi divide i reduci dai lager in due categorie: chi vorrebbe dimenticare - ma non può mai del tutto - e chi sente il dovere di ricordare: “Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineate due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager per disgrazia, cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri politici, o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia”.

Ad alcuni sembra un paradosso che Levi, il deportato politico, che sente il dovere della memoria, sia anche un nonviolento. Ne I sommersi e i salvati egli afferma di non saper fare a pugni: “non per santità evangelica né per aristocrazia intellettualistica, ma per intrinseca incapacità”. Quando tuttavia Améry lo soprannomina “il perdonatore”. Levi risponde: “non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud Africa, perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa”. L’unica “arma” di Levi è la scrittura.

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