Primo Levi nasce nel 1919 a Torino da una famiglia di ebrei piemontesi. A 15 anni è uno studente di liceo timido e scrupoloso. Si appassiona allo studio della chimica e della biologia, mentre non gli accade altrettanto con la storia e l’italiano. E’ insomma un ragazzo come tanti altri.
Quando, nel 1938, il governo italiano emana le leggi razziali. Primo Levi può continuare a studiare solo perché è già iscritto all’università. A 22 anni si laurea in chimica a Torino. È in questo periodo che matura la fierezza di essere “impuro” in una società che esalta la purezza della razza ariana. Di tutto ciò scrive ne Il sistema periodico.
Lavora poi per alcuni anni come chimico anche a Milano. Entra nel Partito d’Azione e collabora con il CLN (Comitato di liberazione nazionale). A 25 anni viene arrestato come partigiano e deportato nel campo di concentramento di Fossoli (Carpi). Trasferito ad Auschwitz si salva per una serie di combinazioni: la conoscenza della lingua tedesca, l’allenamento alla vita di montagna, il mestiere di chimico esercitato in un laboratorio del lager, una malattia per cui viene abbandonato dai nazisti in fuga. Narra tali eventi in Se questo è un uomo.
Il suo avventuroso ritorno a casa avviene attraversando Russia, Ucraina, Romania, Ungheria e Austria. Gli orrori del lager sono ormai lasciati alle spalle e Primo Levi assapora finalmente la libertà. Tuttavia, giunto in Italia, di fronte alla scomparsa del mondo in cui aveva vissuto si accorge che quel viaggio non è stato che una breve pausa. Di tutto ciò scrive ne La tregua.
Si sforza quindi di vivere una vita normale: si sposa, diviene padre di due figli, dirige una fabbrica di vernici. Contemporaneamente mette a frutto le sue capacità di scrittore per narrare lo sterminio nazista (I sommersi e i salvati) ma anche il mondo del lavoro (La chiave a stella). Con il romanzo Se non ora, quando? giunge addirittura a vincere i premi Viareggio e Campiello. Scrive: “Raccontare dopo Auschwitz si può ciò che non si può è raccontare dimenticando Auschwitz”.
Ad Auschwitz torna più volte, anche come accompagnatore di visitatori. Se ricordando lo sterminio Elie Wiesel si è chiesto: “Dov’era Dio?”, Primo Levi, più laicamente, si chiede: “Dov’era l’uomo?”. Una “fede laica” la sua. Una fede che trasforma la mente in un bunker per proteggerla dalla crudeltà circostante, per conservare ciò che rende la vita “civile”. Per questo egli era sopravvissuto al lager: per raccontare le cose a cui aveva assistito, per ricordare che chi dimentica il passato è destinato a riviverlo, per ribadire che anche nei giorni più oscuri occorre riconoscere sempre negli altri e in se stessi delle persone e non delle cose. Per questo ripeteva spesso: “In piedi vecchi, per noi non c'è congedo”.
Eppure nel 1987, all’età di 68 anni, Primo Levi si toglie la vita. Alcuni hanno provato a spiegare quel suo gesto. Altri, imbarazzati, evitano di ricordarlo. Forse più semplicemente si tratta di un atto che non può essere spiegato. Proprio come inspiegabile è quella realtà (Auschwitz) che Primo Levi ha vissuto e testimoniato per tutta una vita. Una realtà che molti dei suoi libri continuano ancora oggi a testimoniare per lui.
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