Per le Scritture ebraiche e cristiane l’umanità è un insieme di creature finite nel duplice senso di una limitazione spaziale e temporale: “perché sei polvere e polvere ritornerai” (Genesi 3,16-19). Da questa consapevolezza deriva l’umiltà cristiana. Thomas Spidlik (La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale sistematico, San Paolo) fonda sui padri della chiesa (Giovanni Crisostomo, Evagrio, Giovanni Climaco) le sue affermazioni sull’umiltà come conoscenza di sé e dei limiti della propria natura umana. Una natura peccatrice cosciente della propria miseria: per ogni uomo la salvezza ha inizio con la condanna di se stesso. In rapporto al prossimo l’umiltà conduce a non rimproverare nessuno, non giudicare nessuno, non dominare su nessuno.
L’essere umano è tuttavia un soggetto sempre a rischio di divenire un oggetto. Platone lo definì un animale a due gambe senza piume. Diogene rispose spennando un gallo e portandolo all’accademia. La Mettrie lo definì una macchina in cui introduciamo quello che chiamiamo cibo e produciamo quello che chiamiamo pensiero. Scrive Abraham Joshua Heschel (Chi è l’uomo?, Rusconi): “Nella Germania prenazista veniva spesso citata la seguente enunciazione dell’uomo: il corpo umano contiene una quantità di grasso sufficiente per produrre sette pezzi di sapone, abbastanza ferro per produrre un chiodo di mezza grandezza, una quantità di fosforo sufficiente per allestire duemila capocchie di fiammiferi, abbastanza zolfo per liberarsi dalle proprie pulci”.
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