La cinciallegra è la più spavalda, guardinga, sempre pronta a spiccare il volo. Le cince in inverno sono palle da tennis, tonde, affamatissime. Le cinciallegre sono in coppia, si inseguono svolazzando da un ramo all’altro, in tondo, fino a quando mi intuiscono da dietro il vetro che le osservo con curiosità, come a voler turbare la loro intimità e rubare loro la libertà. Così si tuffano dietro la siepe, si slanciano vero i rami rinsecchiti di un albero spoglio, lontano dalla mia vista.
Il merlo e la sua compagna sono sempre vigili, pronti a scacciare gli altri dal melograno. Non entrano nella mangiatoia a tetto e così attendono che qualcuno faccia cadere qualcosa per variare la loro dieta di vermi umidi di terriccio profondo. Il merlo mi sfida, mi fissa, non si allontana. Rimane fermo e impassibile, incurante del vento gelido e della pioggia. È forse a guardia del nido che ha costruito nel folto dell’edera che ha ricoperto tutta la recinzione?
Il passero è il più timido, attende di essere solo per avvicinarsi alla mangiatoia. Tre giovani passeri arrivano insieme, per farsi forza. Si nascondono nella folta siepe ed escono solo per mangiare o volare via.
Il pettirosso è ingenuo, tranquillo e osserva tutto l’andirivieni da terra o da un ramo appartato.
La cinciarella è un’alpinista, si arrampica sulle borse a rete delle palle di grasso e sbocconcella qualcosa tenendosi in verticale. La scorsa primavera una coppia di cinciarelle ha messo su famiglia nella cassetta appesa all’olivastro. Non ho osato alzare il coperchio, mi accontentavo del richiamo della fame dei piccoli che taceva solo all’imbrunire o dell’andirivieni frenetico dei grandi con una preda nel becco.
Le colombe e le gazze sono vecchie aristocratiche che si tengono alla larga dalla plebe. Se ne stanno sullo sfondo, ben protette dentro al loro rifugio preferito, un pino silvestre, albero più alto e folto, sempre verde, dentro cui si nascondono, svelate solo dai loro versi singolari e inconfondibili.
Così fanno anche i piccioni e le tortore che osservano la scena dai tetti e dalle antenne delle case.
Tutti, nessuno escluso, vivono per superare l’inverno, nell’attesa di una nuova primavera. Verrà?
Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
giovedì 21 marzo 2019
martedì 19 marzo 2019
Le stelle e i profeti
C’è ancora una sezione della bibbia ebraica (ketuvìm), la quarta, in cui sono conservati gli scritti. Gli ultimi in ordine canonico sono i libri delle cronache. Così l’intera bibbia ebraica si conclude con l’editto di Ciro re di Persia. Gli ebrei sono in esilio nelle terre degli assiri e dei babilonesi. Ciro, che ha conquistato tutti i regni della terra, vuole costruire un tempio al Dio del cielo in quel di Gerusalemme. Per questo ordina agli ebrei di tornare nella terra promessa (2 Cr 36,22). Come fece Abramo quando lasciò la casa di suo padre. Come fece Mosè quando condusse il popolo fuori dall’Egitto.
È strana questa posizione dei libri delle cronache. Dal punto di vista storico dovrebbero trovare posto nella sezione dei profeti anteriori, dopo i libri di Samuele e dei re, come nella bibbia cattolica. Ma gli artefici del canone ebraico avevano in mente altro. Il mistico ebreo Abulafia consiglia di meditare di notte. Osservando le stelle sperimentiamo nel presente la manifestazione del passato. Questo è il compito della profezia. I libri di Mosè sono l’archetipo di Israele. I libri dei profeti sono l’applicazione di quegli insegnamenti al tempo presente. Un presente difficile, segnato dall’oblio, un tempo in cui fare ritorno a Dio.
Per questo i profeti, nemici del letteralismo, si servono di immagini poetiche. Esperti di pedagogia, cominciano con una minaccia, ma terminano con una buona novella. A volte è il popolo che si converte. A volte è Dio che si commuove. Come fa anche il profeta quando prega che le proprie minacce non si realizzino. Quando Geremia annuncia l’esilio, lo fa sperando che non sia la sua parola a realizzarsi, ma piuttosto quella di Anania che annuncia la liberazione di Gerusalemme (Ger 28,6). Il Talmud dice che i profeti annunciano ciò che deve essere, ma che non deve necessariamente essere (Jebamot 50a).
Per questo il profeta non è infallibile. Nel libro di Ester il popolo ebraico in esilio è in pericolo. Il re Serse si toglie l’anello o lo consegna ad Aman perché sigilli il comando di sterminio (Est 3,10). Ma la regina Ester digiuna, gli ebrei fanno penitenza e il genocidio non avrà luogo. Il Talmud dice che l’atto di sfilare l’anello fu più efficace di 44 profeti e 7 profetesse. Infatti le loro predicazioni non condussero il popolo alla conversione come invece riuscì a fare l’anello di Serse (Megillah 14a).
martedì 12 marzo 2019
La penna dei profeti
Il profeta biblico (navi') non è un indovino e non interpreta gli oracoli come a Delfi. A fare del profeta un indovino hanno contribuito (anche) i vangeli, riportando molte affermazioni profetiche (alcune errate) per dimostrare la messianicità di Gesù, secondo lo schema promessa-compimento. Ma la profezia ebraica non è padronanza del domani, è conoscenza di Dio, che affida al profeta una parola da annunciare contestualmente. Il filosofo ebreo Martin Buber traduce il termine ebraico navi’ con annunciatore. L’annuncio pone sempre un’alternativa condizionata: da una parte l’esito naturale della condotta dei destinatari, dall’altra la conversione a Dio per evitarlo. A farne le spese è spesso la coerenza del profeta, come sa bene Giona, il cui libro descrive l’impossibilità di disporre di Dio.
Il profeta non ha mai la certezza della chiamata di Dio, perché non conosce in anticipo quel che dovrà dire. Ma Dio conosce il profeta e il profeta deve farsi bastare la promessa dell’alleanza infrangibile di Dio con Israele. Il profeta quindi non è un eroe senza paura, sa che la parola di Dio è scomoda e attira persecuzioni, Dio non gli garantisce pace e tranquillità. Davanti a re, sacerdoti e anziani il profeta è solo e indifeso, ma chi spera nel Dio d’Israele, non dispera neppure nella sventura.
Allora il profeta discute con Dio come fa Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra (Gen 18,23), litiga con Dio come Geremia perché gli empi prosperano (Ger 12,1), sgrida Dio come Abacuc che urla al sacrilegio senza ottenere aiuto (Ab 1,1). Oppure il profeta se la prende con il potente di turno come Samuele che rimprovera il re Saul per aver agito da stolto (1 Sam 13,13), come Elia che condanna il re Acab perché ladro e assassino, come Natan che accusa il re David di rubare ai poveri e commettere adulterio (2 Sam 12,7).
La critica al potere si trasforma in attività politica quando Isaia si dilunga in questioni di strategia, quando Geremia chiede ai governanti una politica estera impopolare, quando Amos si intromette senza timore nella politica sociale dell’aristocrazia. Altro che prediche festive, altro che discorsi da opposizione parlamentare, qui sia gli accusatori che gli accusati rischiano la vita.
Lo scrittore israeliano Amos Oz era un convinto sostenitore del compromesso. Dove c’è vita ci sono compromessi – diceva in un’intervista – e il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sulla sua scrivania Oz teneva due penne: una blu e una nera. Così ricordava che scrivere un romanzo è cosa diversa da scrivere un saggio politico. Nei suoi romanzi c’era sempre il compromesso perché narrava la vita. Nei suoi saggi politici invece c’era la profezia. I politici israeliani apprezzavano i romanzi e la notorietà di Oz e ignoravano completamente i suoi saggi. Anche i profeti al tempo loro non sono gran che riusciti – ironizzava – a far cambiare idea a governanti e sovrani e nemmeno al popolo.
Il profeta non ha mai la certezza della chiamata di Dio, perché non conosce in anticipo quel che dovrà dire. Ma Dio conosce il profeta e il profeta deve farsi bastare la promessa dell’alleanza infrangibile di Dio con Israele. Il profeta quindi non è un eroe senza paura, sa che la parola di Dio è scomoda e attira persecuzioni, Dio non gli garantisce pace e tranquillità. Davanti a re, sacerdoti e anziani il profeta è solo e indifeso, ma chi spera nel Dio d’Israele, non dispera neppure nella sventura.
Allora il profeta discute con Dio come fa Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra (Gen 18,23), litiga con Dio come Geremia perché gli empi prosperano (Ger 12,1), sgrida Dio come Abacuc che urla al sacrilegio senza ottenere aiuto (Ab 1,1). Oppure il profeta se la prende con il potente di turno come Samuele che rimprovera il re Saul per aver agito da stolto (1 Sam 13,13), come Elia che condanna il re Acab perché ladro e assassino, come Natan che accusa il re David di rubare ai poveri e commettere adulterio (2 Sam 12,7).
La critica al potere si trasforma in attività politica quando Isaia si dilunga in questioni di strategia, quando Geremia chiede ai governanti una politica estera impopolare, quando Amos si intromette senza timore nella politica sociale dell’aristocrazia. Altro che prediche festive, altro che discorsi da opposizione parlamentare, qui sia gli accusatori che gli accusati rischiano la vita.
Lo scrittore israeliano Amos Oz era un convinto sostenitore del compromesso. Dove c’è vita ci sono compromessi – diceva in un’intervista – e il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sulla sua scrivania Oz teneva due penne: una blu e una nera. Così ricordava che scrivere un romanzo è cosa diversa da scrivere un saggio politico. Nei suoi romanzi c’era sempre il compromesso perché narrava la vita. Nei suoi saggi politici invece c’era la profezia. I politici israeliani apprezzavano i romanzi e la notorietà di Oz e ignoravano completamente i suoi saggi. Anche i profeti al tempo loro non sono gran che riusciti – ironizzava – a far cambiare idea a governanti e sovrani e nemmeno al popolo.
martedì 5 marzo 2019
Ciascun petalo
Io sono Adso da Melk.
Quando chiedo al mio maestro:
come usciremo da qui?
e lui mi risponde:
non senza difficoltà, Adso.
Quando apprendo da lui
a leggere il libro del mondo.
Quando mi perdo nel corpo
di una giovane donna
che mi resta sconosciuta
- bella come la luna
fulgida come il sole
terribile come un esercito -
e lui non mi condanna
e come Rabbunì mi dice:
va’ con Dio e non angustiarti.
Io sono Guglielmo da Baskerville.
Quando regalo i fidi occhiali
che mi aiutano a vederci chiaro
anche nelle più torbide notti
al caro e fedele discepolo.
Quando considero la fede
oltre l’ortodossia e l’eresia
per il movimento che offre,
per la speranza che propone.
- che può l’eretico nascere dal santo
e l’indemoniato dal veggente.
Quando respingo il potere
fine a me stesso
come una tentazione
ma non rinuncio ad usarne
quando metto a fuoco il male.
Quando taccio perché
chi mi ascolta non capirebbe.
Quando dico: capisco
per far capire che taccio
ma non approvo affatto.
Io sono il venerabile Jorge.
Quando temo il riso
che squassa il corpo
che mi rende una scimmia
che uccide prima la paura e poi la fede.
Io sono Bernardo Gui l’inquisitore.
Quando brucio sul rogo una ragazza
colpevole della sua innocente povertà.
Quando mortifico il mio intelletto
e nello stesso rogo tutti i libri getto.
Io di quella rosa
sono ciascun petalo.
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