martedì 12 marzo 2019

La penna dei profeti

Il profeta biblico (navi') non è un indovino e non interpreta gli oracoli come a Delfi. A fare del profeta un indovino hanno contribuito (anche) i vangeli, riportando molte affermazioni profetiche (alcune errate) per dimostrare la messianicità di Gesù, secondo lo schema promessa-compimento. Ma la profezia ebraica non è padronanza del domani, è conoscenza di Dio, che affida al profeta una parola da annunciare contestualmente. Il filosofo ebreo Martin Buber traduce il termine ebraico navi’ con annunciatore. L’annuncio pone sempre un’alternativa condizionata: da una parte l’esito naturale della condotta dei destinatari, dall’altra la conversione a Dio per evitarlo. A farne le spese è spesso la coerenza del profeta, come sa bene Giona, il cui libro descrive l’impossibilità di disporre di Dio.

Il profeta non ha mai la certezza della chiamata di Dio, perché non conosce in anticipo quel che dovrà dire. Ma Dio conosce il profeta e il profeta deve farsi bastare la promessa dell’alleanza infrangibile di Dio con Israele. Il profeta quindi non è un eroe senza paura, sa che la parola di Dio è scomoda e attira persecuzioni, Dio non gli garantisce pace e tranquillità. Davanti a re, sacerdoti e anziani il profeta è solo e indifeso, ma chi spera nel Dio d’Israele, non dispera neppure nella sventura.


Allora il profeta discute con Dio come fa Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra (Gen 18,23), litiga con Dio come Geremia perché gli empi prosperano (Ger 12,1), sgrida Dio come Abacuc che urla al sacrilegio senza ottenere aiuto (Ab 1,1). Oppure il profeta se la prende con il potente di turno come Samuele che rimprovera il re Saul per aver agito da stolto (1 Sam 13,13), come Elia che condanna il re Acab perché ladro e assassino, come Natan che accusa il re David di rubare ai poveri e commettere adulterio (2 Sam 12,7).


La critica al potere si trasforma in attività politica quando Isaia si dilunga in questioni di strategia, quando Geremia chiede ai governanti una politica estera impopolare, quando Amos si intromette senza timore nella politica sociale dell’aristocrazia. Altro che prediche festive, altro che discorsi da opposizione parlamentare, qui sia gli accusatori che gli accusati rischiano la vita.



Lo scrittore israeliano Amos Oz era un convinto sostenitore del compromesso. Dove c’è vita ci sono compromessi – diceva in un’intervista – e il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sulla sua scrivania Oz teneva due penne: una blu e una nera. Così ricordava che scrivere un romanzo è cosa diversa da scrivere un saggio politico. Nei suoi romanzi c’era sempre il compromesso perché narrava la vita. Nei suoi saggi politici invece c’era la profezia. I politici israeliani apprezzavano i romanzi e la notorietà di Oz e ignoravano completamente i suoi saggi. Anche i profeti al tempo loro non sono gran che riusciti – ironizzava – a far cambiare idea a governanti e sovrani e nemmeno al popolo.

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