martedì 6 settembre 2022

Il Padrenostro di Piero Stefani

 

 

Ci sono due versioni della “preghiera del Signore”. In chiesa si recita quella di Matteo 6,9-13, collocata nel discorso della montagna (5- 7), collegata con elemosina e digiuno. Quella di Luca 11,2-4 è più breve, inserita nell’ultimo viaggio verso Gerusalemme, di un Gesù che prega in ogni momento saliente della vita. Quale sarà la versione di Gesù (ipsissima verba Jesu)? La tradizione dice Matteo, la critica Luca. L’inizio (incipit) e la fine (dossologia) del testo di Matteo, in uso presso le chiese protestanti (vv. 9 e 13b), fanno pensare all’utilizzo in una liturgia. Quando Luca parla di “peccati”" al posto di “debiti” preferisce il greco all’ebraico (desemitizzazione del linguaggio).

Il Padre Nostro è diviso in due parti e sette richieste. La prima parte concerne Dio (quoad Deum) e le richieste sono tre: nome, regno, volontà. La seconda parte concerne l’umanità (quoad hominem) e le richieste sono quattro: pane, debiti, tentazione, male. La tradizione cristiana sottolinea il “nostro” di Matteo in senso comunitario e anti individualistico. Questa possibile aggiunta al testo di Luca identifica un gruppo distinto dagli altri, ma può far scivolare nell’antigiudaismo. Cipriano commenta: “Dio ha cominciato ad essere nostro padre da quando ha cessato di esserlo per i giudei”.

Nella Didaché (8,1-2) del I-II secolo compare il testo di Matteo. Non è più una preghiera nascosta (Matteo 6,6) ma si contrappone agli ebrei, che ostentano, e ai gentili, pieni di verbosità. Gli “ipocriti” (ebrei) digiunano lunedì e giovedì, mentre i credenti (cristiani) mercoledì e venerdì (ancora oggi nelle sinagoghe si legge la Scrittura di lunedì, giovedì e sabato). Il testo, nell’istruzione catecumenale nella chiesa antica, è inserito tra il battesimo e l’eucaristia (ancora oggi la “preghiera domenicale” si recita poco prima della comunione). Inoltre fungeva da “iniziazione ai misteri” (mistagogia) e fino al Vaticano II era recitato solo dal sacerdote. L’assemblea si limitava a proclamare “sed libera nos a malo” (e ancora oggi si dice “obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento osiamo dire...”).

Tertulliano definisce il Padre Nostro sintesi dell’evangelo (breviarium totius evangelii). Dante nella Divina commedia ne fa una parafrasi spirituale. Il Padre Nostro è centrale nella spiritualità francescana. Ai chierici Francesco chiede di recitare il Pater, il Miserere (Salmo 50), il De profundis (Sai 129), il divino ufficio, le lodi e le orazioni attraverso i breviari. I laici illetterati possono recitare ventiquattro Pater al mattutino, cinque alle lodi, sette per ogni ora (prima, terza, sesta, nona), dodici per il vespro e sette per compieta.

I materiali liturgici giudaici risalgono al II-III sec. d.C., ma le formulazioni sono anteriori. Per comprendere la natura del Padre Nostro è indispensabile confrontarlo con il Qaddish e alcune delle Diciotto benedizioni (Shemonè ‘esrè). Il Qaddish è un testo in aramaico che contiene espressioni come “sia santificato il suo nome”, “venga il suo regno” e “sia concessa grande pace dal cielo e vita prospera sopra di noi e sopra tutto Israele”. Le benedizioni contengono espressioni come “Tu sei santo e il tuo Nome è santo” (terza), “perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato” (sesta), “saziaci e benedici quest’annata come le annate migliori” (nona). Da notare anche il passaggio dal “tu” al “noi”.

Il Padre Nostro è una preghiera breve come il Qaddish. Tuttavia il Qaddish è preghiera liturgica, il Padre Nostro è spontaneo (tachanum) e solitario (tefillà jachid). Quella “di Gesù” è una preghiera per chi ha lasciato casa, campi, reti e famiglie, per seguire il Maestro. Per questo è accostabile all’invocazione nel Getsemani. Il Padre nostro si apre con il greco “Pater”, l’invocazione al Getsemani con l’aramaico “Abbà”. Non un’espressione di dolce intimità, quanto piuttosto un gridare a Dio dal profondo (Salmo 130) sulla croce (SaImo 22).

La preghiera indipendente da altri riti, culti, luoghi e persone, è una creazione originale del giudaismo. Il cristianesimo la fa propria e il Padre Nostro è un modello del pregare che innesta il credente in Gesù Cristo in Israele. Per questo non è “ponte” tra ebraismo e cristianesimo, tale che anche un ebreo la può recitare, ma è “radice” che attesta il legame indissolubile tra due “misteri”. In Esodo 4,22 Dio definisce Israele “mio figlio primogenito” e in Isaia 63-64 le opere salvifiche di Dio per Israele creano un legame paterno/filiale. Per questa fede Gesù “Figlio” chiama Dio “Padre”.

Nel passare di bocca in bocca il Padre Nostro ha perso incisività. L’invocazione del Regno si è spiritualizzata in richiesta di grazia o paradiso. Il “non ancora” o lato “debole” di Dio (Filippesi 2,6-8) è caduto nell’oblio. La divisione in due parti ha fatto dimenticare che per l’incarnazione non è più possibile distinguere/fa causa di Dio da quella dell’uomo. Gesù non fa menzione della “casa d’Israele” perché la sua è la preghiera solitaria di un ebreo figlio d’Israele. Gesù mediatore insegna a rivolgersi al Padre senza mediazioni. Lo Spirito del Figlio che grida “Abbà” dona l’adozione a figli posseduta dagli ebrei (Romani 9,4).

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