“I compagni apprendevano il ciclo stagionale di ogni tipo di verdura, di frutta, di cereali e legumi. Impararono che ci sono diversi tipi di terreno, più o meno permeabile, e anche a distinguere tra insetti utili e dannosi. Col tempo impararono anche a parlare meno mentre lavoravano. Lassia, lo storico militare, lo stratega, il fondatore del Movimento dello Shomer haTzair sovietico […], il tipo pallido e grassoccio, imparò a coltivare le melanzane”.
Dall’Unione Sovietica, circa un secolo fa, alcuni giovani ebrei intraprendono un viaggio “ha-baytah”. L’Unione Sovietica infatti, pur essendo il luogo in cui sono nati e cresciuti, non è la loro casa. Lo si evince già dalle prime pagine del libro. Lungo un viale di Odessa c’è una donna appesa a un albero. Militava nella resistenza ucraina antisovietica. Il giorno prima aveva teorizzato che non esistono ucraini ebrei, ma solo ebrei ucraini. E qual è allora la casa di questo manipolo di giovani? Dove sono diretti? La casa a cui Lonya, Clara, Lassia, Mitya, Mola, Leo e Zvi tendono è la Palestina mandataria. Il governo inglese aveva infatti da poco approvato la dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) che conteneva un riconoscimento della legittimità del loro insediamento.
Un sogno da realizzare, un nuovo modo di essere ebrei, il desiderio di una società più giusta, la voglia di assumersi responsabilità, la possibilità di scrivere una pagina di storia, il fascino di farlo insieme, in un collettivo sempre più ampio. Una volta giunti a destinazione, come in ogni impresa adulta, cominciano le difficoltà e gli errori, emergono i preconcetti e le ideologie, la terra si rivela arida e il clima ostile, la convivenza con gli arabi è problematica, il lavoro è scarso e duro, malattia e morte sono accucciate alla porta di casa. Eppure dalle fatiche di questi giovani pionieri sorge nel 1932 il kibbutz Beth Afikim. È qui che nasce l’autore di questo romanzo storico che ha il sapore di un’epopea. Nella valle del Giordano, all’altezza del lago di Tiberiade, altri kibbutzim nacquero e continuarono a nascere fino alla metà del secolo scorso.
L’ebraico Beth Afikim può essere tradotto con l’espressione “casa tra i fiumi”, il Giordano da una parte e il suo affluente Yarmuk dall’altra, con un richiamo al libro di Ezechiele (34,13). Oggi in questo villaggio vivono circa 1.500 persone che coltivano banane, palme da dattero, avocado, olive, flora subtropicale e cereali. Si occupano di acquacoltura e allevano 400 mucche da latte. La Afikim Electric Vehicles produce veicoli elettrici. La storia del kibbutz è la stessa dell’insorgente Stato ebraico: il mondo del lavoro si fa più complesso, nascono fabbriche e cresce l’individualismo, giungono i sopravvissuti dei campi di concentramento, sorge lo Stato d’Israele, scoppiano le guerre con il mondo arabo, il socialismo si annacqua e negli anni '80 il villaggio attraversa una crisi economica e viene parzialmente privatizzato.
Il sogno di quel manipolo di giovani ebrei partiti dall’Unione Sovietica si realizza, ma solo in parte. Del resto l’impresa fin dall’inizio si era rivelata non facile: “Lo Shomer haTzair dell’Unione Sovietica lasciò Afula e si divise in quattro unità. Una andò ad Haifa, la seconda andò a Zikhron Ya’akov, la terza andò in una fattoria per la formazione agricola e la quarta […] andò a sud verso Tel Aviv e si stabilì in una baracca di latta lungo il fiume Yarkon, vicino al mare. […] La seconda unità cercò di trovare lavoro negli agrumeti e nei vigneti di Zikhron Ya’akov, ma gli abitanti del villaggio preferivano gli arabi”.
Nessun commento:
Posta un commento