Il periodo degli studi critici (sec. XX)
Negli ultimi decenni non sono poche le opere di autori ebrei su Gesù; “Gesù e Israele” di Jules Isaac (Nardini, Firenze 1976), “Fratello Gesù” di Schalom Ben-Chorin (Morcelliana, Brescia 1985), “Jesus” di David Flusser (Morcelliana, Brescia ), Klausner, Vermes, Heschel, Thoma, Neusner, Borowitz, Falck, Lapide, Montefiore...
Geza Vermes - docente all’università di Oxford - ebreo, profondo conoscitore del giudaismo rabbinico - noto per i suoi studi sui manoscritti di Qumran - nel 1973 pubblica Gesù l’ebreo (Borla, Roma 2001), una trilogia che prosegue nel 1983 con Jesus and the World of Judaism (mai tradotta) e nel 1993 con La religione di Gesù l’ebreo (Cittadella, Assisi 2002)
Vermes collaziona i vangeli con un’enorme quantità di materiale biblico e rabbinico tratto dalla Mishnà e dal Talmud. Di Gesù studia con attenzione la relazione con la Torà, il magistero intessuto di proverbi e parabole, l’attesa della venuta imminente del Regno, la concezione di Dio come Padre, la profonda fede ebraica e la vocazione alla santità. Ne emerge la figura di un maestro carismatico, di umili origini galilee, consapevole della sua missione tra la gente semplice. Un sapiente che non ricerca titoli da profeta, messia o figlio di Dio in senso cristologico, ma trae la sua autorità dalla capacità di operare guarigioni. La religione di Gesù si fonda sulla Torah, la Bibbia ebraica, ed è profondamente escatologica. Per Gesù la Torà è parola di Dio da osservare e orientare a una finalità che non è giuridica ma etico-religiosa.
Abraham Joshua Heschel - uno dei massimi pensatori ebrei del secolo scorso - nasce a Varsavia nel 1907 in una famiglia chassidica - nel 1940 ripara negli Stati Uniti – insegna etica e mistica ebraiche per quasi trent’anni - alcune sue opere come II sabato (Garzanti, Milano 1999) e Dio alla ricerca dell’uomo (Borla, Roma 1969) sono note anche in Italia - muore a New York nel 1972 – l’ultima sua fatica è l’opera Torah min ha-shamajim (La Torà viene dal cielo) - scritta in ebraico per l’abbondante uso di fonti antiche - tredici capitoli sono tradotti in italiano in La discesa della Shekinah (Qiqajon, Bose 2003) - un discesa del divino nell’umano - il contesto è la discussione tra le scuole di Rabbi ‘Aqiva e di Rabbi Jishma’el - la prima, minoritaria e mistica, sostiene che il Signore discese sul monte Sinai” (Esodo 19,20) — la seconda, maggioritaria e profetica, preferisce le parole: “Dal cielo ho parlato con voi” (Esodo 20,2) - secondo Rabbi ‘Aqiva la relazione di Dio con Israele è intima e Dio soffre e si riscatta con il suo popolo - al contrario per Rabbi Jishma’el è un vincolo morale che obbliga Israele alla pratica dei precetti e Dio alla redenzione — cuore e volontà, pathos e patto, contingenza e permanenza.
Nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano si accosta spesso l’idea di Shekinah alla persona di Gesù Cristo. Il verbo ebraico shakan significa abitare, dimorare, risiedere. Quando un ebreo parla di Shekinah si riferisce alla dimora di Dio in terra. All’interno dell’ebraismo la discussione sul concetto di Shekinah è aperta. Un midrash dice che Dio si rivela nel roveto ardente per condividere il dolore di Israele schiavo in Egitto (Esodo 3,2). Un salmo afferma che Dio inclinò i cieli e discese sul monte Sinai (Salmo 18,10), Un passo talmudico sostiene che il monte Sinai non fu innalzato ma la Shekinah vi si posò. Non può sfuggire la consonanza tra passi come questi e quel caposaldo dell’insegnamento di Paolo di Tarso secondo cui Gesù “pur essendo nella forma di Dio... spogliò se stesso e vestì forma di servo e si fece simile agli uomini... abbassò se stesso e si sottomise fino alla morte e alla morte di croce ’ (cf Filippesi 2,6-8). Citando questo passo Heschel commenta: “E’ possibile che i Sapienti (la scuola di Rabbi Jishma’el) si rendessero conto che i cristiani facevano discendere da idee come queste la loro fede”.
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