Musar
Seguendo un processo di secolarizzazione, dal fervore religioso ebraico si è sviluppato il musar, ovvero l’etica come autodisciplina. Il verbo jasar, spesso usato nel libro biblico dei Proverbi, è di natura disciplinare e conserva un sotteso tono di punizione minacciata. I classici del musar associano la filosofia e la psicologia religiose, la predicazione omiletica e la morale. Tra essi spiccano I doveri del cuore, scritto in arabo da Bahya ben Joseph ibn Paquda nella Spagna dell’XI secolo (Paoline, Cinisello Balsamo 1988), e II sentiero dei giusti di Moshé Cha’im Luzzatto, uscito in Italia nel XVIII secolo (San Paolo, Cinisello Balsamo 2000).
Gli studiosi di musar tendevano a un costante miglioramento personale. Disponevano di un compagno con cui studiare e confrontarsi sulle scelte di vita quotidiana. A costui confessavano le proprie manchevolezze morali e i propri punti deboli. La necessità del musar deriva dalla psicologia dei primi rabbini. Essi vanno oltre la cattiva inclinazione dell’uomo, che il cristianesimo definisce il peccato originale, e l’idea mistica dell’esistenza nell’universo di forze demoniache in lotta contro Dio. I rabbini descrivono la natura umana come luogo in cui avviene il combattimento tra uno jetzer ha-tov, cioè un istinto buono, e uno jetzer ha-rà, ovvero un istinto cattivo.
Nel film Manhattan del regista e attore cinematografico ebreo Woody Allen (USA 1979, United Artists Europa - Warner Home Video), c’è un colloquio molto significativo tra Dee, interpretato dallo stesso Alien, e Yale, un rampante Michael Murphy. In un’aula scolastica Dee rimprovera Yale per aver lasciato la moglie.
Yale: “Sei così farisaico, senti. Beh, ma noi siamo persone, esseri umani. Tu ti credi Dio!”.
Dee: “Hey, ma a qualche modello dovrò pur ispirarmi”.
Yale: “Senti, non si può vivere come vivi tu, esigendo la perfezione”.
Dee: “Cosa diranno mai le generazioni future di noi?”.
Dee indica ora uno scheletro utilizzato per lezioni di anatomia: “Ma sai che un giorno saremo uguali a lui... Sai, è molto importante avere una specie di integrità personale. Io starò così in una classe in avvenire e voglio essere sicuro che quando sarò all’osso verrò ben giudicato”.
Quanto detto potrebbe far pensare al musar come a un’etica totalmente centrata sull’uomo e dimentica di Dio. A questo proposito c’è un movimento di estremo interesse che caratterizza la tradizione ebraica e la pone al riparo dal rischio dell’umana autosufficienza. É la berakhah, ovvero la benedizione, che un ebreo dovrebbe recitare un centinaio di volte il giorno per ringraziare Dio per la luce, il pane, l’acqua e tutto ciò che riceve ogni giorno in dono. Una benedizione che, indipendentemente dall’oggetto, si rivolge al soggetto divino con queste parole: Barukh attah Adonai Elohenu melekh ha- ‘olam..., ovvero: Benedetto sei Tu, Signore Dio nostro, re del mondo...
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