domenica 20 giugno 2021

Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale di Claudio Magris

 

Claudio Magris (1939), già docente di lingua e letteratura tedesca all'università di Trieste, si è occupato di Joseph Roth nel libro "Lontano da dove. Roth e la tradizione ebraico-orientale". Il titolo è ripreso da una storiella ebraica. Alla domanda: "Vai dunque laggiù? Come sarai lontano!", un ebreo risponde: “lontano da dove?”.

Oggetto del saggio di Magris è la letteratura jiddish, lingua ebraico-tedesca, come specchio della civiltà dello shtetl, piccola città e microcosmo degli ostjuden. Epos o cronaca di un mondo spesso sconvolto dalla persecuzione, essa elude la tragedia per volgersi al malinconico sorriso consolatore di chi sa di non poter essere veramente sconfitto.

Ultimo protagonista di questo mondo è appunto Joseph Roth che si distingue dai nostalgici asburgici e, vicino a Musil nella critica dei valori, legge nello sfacelo dell’Impero austro-ungarico la fine della tradizione e l'inizio del moderno (atomizzazione e secolarizzazione).

Il saggio "Ebrei erranti" (1927) è un polemico epitaffio dello shtetl, di quella comunità ristretta e isolata dal circostante e ostile contesto umano, di quel cosmo che offriva ai singoli individui un cordone ombelicale con la totalità della vita. Roth definisce questa umanità, integra e illesa nella sua carica affettiva, Heimat, la patria e la terra natia perduta e irraggiungibile.

Di contro Vaterland è la trepida unità di ambiente e persona alla collettività aggressiva e razzista, barbaramente orgogliosa del suo nazionalistico ''marchio di Caino”. Per l'ebreo della diaspora il Vaterland è sempre idolatra, sia quello degli isterici stivali prussiani sia quello dei grattacieli americani.

Nelle pene della storia-esilio il rifugio è la Mutterheimat di Else Lasker-Schuler, una completa identificazione tra patria e madre, rifugio e casa, per Roth l'impero e lo shtetl. Per lui, come per Kafka, il ghetto agonizzante si trasforma in un mito impossibile, utopia di un passato che si pone come implicita contestazione del presente, riaffermazione di valori certo proiettati arbitrariamente nello shtetl ma altrettanto certamente assenti nella storia contemporanea.

Lo jiddish diviene il dialetto su scala mondiale che, lungi dall'estetica del borghese perplesso o dell’intellettuale deluso, narra l'amore paterno di Tewje il lattivendolo. Come nella mistica della qabbalah - quella di Luria che traspone in termini metafisici l'angoscia per la cacciata degli ebrei dalla Spagna - anche per Roth gli imperi cadono e il Messia non viene: lo sfacelo della Mitteleuropa diviene una parabola della lacerazione e della solitudine dell’uomo moderno.

II suo stoico "Giobbe" è l'icona di un'incrollabile ethos individuale ispirato a un immutabile codice di valori. La serenità di Mendel Singer dinanzi al suo dolore, il suo caffetano immutato dalla vita americana, la sua rinuncia all'attesa del Messia, il richiamo allo shtetl come rifiuto del futuro, infondono una statura mitica alla sua individualità. Uno stoicismo che non conosce restrizione nazionalistica (sionismo), che rifiuta l'etica del lavoro (copertura ideologica dello sfruttamento capitalistico), che restaura la moralità del borghese ottocentesco (l'etica del risparmio) contro il lassismo della società consumistica.

Per Roth non esistono presente e futuro e l'avvento escatologico comporta la rinunzia all'impegno politico. Prima di abbandonare la vita senza eredi, Roth recita il qaddish su se stesso, privo di radici e incapace di tradizione, incarnazione dell'Ostjude disintegrato e assimilato.

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