mercoledì 26 maggio 2021

Primo Levi. Questo è un uomo (5/6)


Reduce dai lager

“Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case.

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa e andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa.

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi”.

Questa poesia, che apre e titola il libro Se questo è un uomo, suggerisce il senso della inumana catastrofe che furono i lager. Poche pagine dopo Levi descrive così l’incontro con uno scienziato nazista che lo deve sottoporre a un esame: “quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: Questo qualcosa davanti a me appartiene ad un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile’".

I lager di sterminio furono cinque: Chelmno, Sobibòr, Treblinka, Majdanek e Auschwitz, che era già un ibrido. Al contrario i lager in territorio tedesco, come Dachau e Buchenwald, erano campi durissimi ma non di sterminio. Così Levi descrive un suo ritorno in quei luoghi di morte: “Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l'impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c'era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla capitale: il mio campo, chiamato Monowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L'intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l'ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C'è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio Ho provato invece un'impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c'era fango, e c'è ancora fango, o polvere soffocante d’estate, le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com’erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, coi pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,80 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio, a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: che cosa è quel fuoco?, e le avevano risposto: siamo noi che bruciamo”.

Nessun commento:

Posta un commento

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

  LE BEATITUDINI (PREMESSA ALLE SUPERTESI) Il rotolo di Qumran 4Q525 2 II, 1-6 ha 9 beatitudini, di cui solo le ultime 5 sono conserva...