martedì 25 maggio 2021

Primo Levi. Questo è un uomo (4/6)


La “razza ebraica”

Primo Levi ha approfondito la cultura ebraica da adulto. Ha studiato lo yiddish, una sorta di dialetto ebraico-tedesco, ma come una lingua straniera che gli ebrei italiani non parlano affatto. Levi è venuto in contatto solo ad Auschwitz con il mondo a lui sconosciuto dell’ebraismo orientale, reso noto da scrittori come Isaac Bashevis Singer o Saul Bellow. Per Levi è un’avventura intellettuale il trovarsi intorno incredibili personaggi che la sera, invece di andare a letto, discutono in yiddish di questioni talmudiche e che quasi non considerano ebreo chi non parla yiddish.

Quando Levi viaggerà negli Stati Uniti, si accorgerà che gli hanno appiccicato addosso un’etichetta ebraica. Venticinque interviste con la stessa domanda: cosa significa essere ebreo in Italia? Non molto, risponderà. Aggiungendo: “Una cosa dovete saperla: gli ebrei italiani non parlano yiddish, anzi, che cosa sia lo yiddish non lo sanno neppure. Parlano solo italiano; anzi, gli ebrei di Roma parlano romano, gli ebrei di Venezia veneziano, e così via. Si vestono come gli altri, hanno le stesse facce degli altri”. E allora come si distinguono? Risposta: “Appunto, non si distinguono”.

Per Levi la questione della razza è un’assurdità. Lo dimostra citando una tecnica di analisi del sangue in grado di gettare luce sulla suddivisione genetica dei gruppi umani. Pare che gli ebrei non appartengano a nessuna suddivisione particolare. Gli ebrei yemeniti non hanno nulla in comune con gli ebrei russi, che sono per metà convertiti di origine ucraina. Non resta che un’unità culturale e/o religiosa che non ha nulla a che fare con l’unità di razza. Levi sostiene che un Paese per diventare razzista deve essere compatto e tendere a farsi un blocco massiccio uniforme e manovrabile: “C’è riuscita la Germania di Hitler, ma non l’Italia perché la differenza tra un piemontese e un calabrese è troppo grande”.

Nel libro Il sistema periodico c’è un elogio di Levi all’impurezza: “Il tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi che ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all'attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l'elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo (armatura metallica medioevale), o l'elogio dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile”.

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