Le radici comuni
La prima parola che Dio rivolge ad Abramo è un comando: “Vattene.../Lech lechà” (Gn 12,1). Abramo obbedisce senza fiatare: “Abramo prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan” (Gn 12, 5a).
La sua fede è senza limiti. Per questo Abramo è padre di tutti i credenti monoteisti: carnale di ebrei e musulmani, attraverso Isacco e Ismaele, e spirituale dei cristiani (si veda Gal 3 e Rm 4).
Quando, a causa di una carestia, scende in Egitto come straniero dice a sua moglie Sara: “Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva per riguardo a te” (cf Gn 12,10-20).
Sara viene condotta nella casa del faraone e Abramo riceve “greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli” (v. 16). Dio colpisce il faraone e la sua casa con grandi calamità e l’inganno diviene chiaro. Abramo non è uno “stinco di santo”.
Dio lo sorprende continuamente con le sue promesse. La discendenza tarda a venire e Abramo, prima di avere un figlio da Sara (Isacco), lo avrà dalla schiava Agar (Ismaele).
Il figlio promesso giungerà quando Abramo e Sara non lo attendono più. “Abramo e Sara erano vecchi negli anni” e “era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne” (cf Gn 18,9-15). Eppure Sara “concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato” e “Abramo aveva cento anni, quando gli nacque il figlio Isacco” (cf Gn 21,1-7).
Dopo averglielo dato Dio chiede ad Abramo di privarsi di quel figlio. E’ il sacrificio di Isacco che gli ebrei ricordano come “akedà/legamento” perché Abramo legò suo figlio all’altare, prima di prendere il coltello per immolarlo a Dio (cf Gn 22,1-18).
Noi cristiani oggi ci sentiamo “piccolo gregge”. Questo conduce taluni al disfattismo e talaltri al desiderio di “riconquista” dei territori perduti. Abramo ci insegna a non disperare perché nulla è impossibile a Dio. Egli non combatte per la terra promessa ma attende con fiducia.
Abramo è chiamato a “uscire” da terra, patria, casa e in ultima analisi da se stesso (cf Gn 12,1), per andare dove gli viene indicato da Dio. “Lech lechà” si può tradurre con “Vai a te”. Paradossalmente “uscire se stessi” non è un “perdersi” ma un “ritrovarsi”. Questo ritorno a Dio/teshuvà/metànoia non toglie nulla alla nostra libertà e responsabilità. E’ certo un’uscita dalle nostre certezze.
Questa uscita non è un movimento individuale e intimistico. La speranza biblica e cristiana riguarda una collettività. Le comunità cristiane oggi, come Abramo e la sua famiglia, sono chiamate a uscire dall’idolatria. Uscire anche dal nostro tempo e “alzare gli occhi” al futuro. Guardare questo nostro “oggi” alla luce di un “domani” indicatoci da Dio stesso nella sua alleanza con noi.
Prima di annunciargli la nascita di Isacco, Dio dice ad Abramo: “Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò” (Gn 17,5). Nella concezione biblica e semitica il cambiamento del nome coincide con un cambiamento del destino dell’uomo. Così “Avram”, “padre eccelso”, diviene “Avraham”, “padre di moltitudini”. Sarà padre di Isacco e del popolo d’Israele, di Ismaele e di coloro che oggi si richiamano all’islam (cf Gn17,20), padre di Gesù Cristo e dei cristiani. La molteplice paternità di Abramo è immagine di quella di Dio Padre.
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