Nella prima sezione della bibbia ebraica – toràh – i profeti sono singoli personaggi tra i patriarchi. Non appartengono a una categoria e non producono documenti scritti. Nella seconda sezione – nevi’ìm – i profeti si trovano in compagnia delle dodici tribù, dei giudici e dei regnanti. I profeti impongono il loro nome alla maggior parte dei libri biblici di questa sezione. La tradizione orale dell’ebraismo comincia tuttavia solo con gli scribi (soferim).
I profeti non trasmettono lo stesso messaggio al popolo ebraico e alle genti. Dopo il diluvio Dio si sarebbe impegnato a non ripetere quell’immane catastrofe. In cambio gli esseri umani si sarebbero impegnati a un certo stile di vita civile. Secondo una tarda tradizione ebraica (TB Sanhedrin 56a su Genesi 9,1-8) le genti avrebbero osservato i cosiddetti sette precetti noachidi: la proibizione di bestemmiare, di essere idolatri, di abbandonarsi alla lussuria, di versare sangue umano, di rubare, di mangiare organi di un animale vivente e l'obbligo di amministrare la giustizia. Gli ebrei, in quanto popolo scelto dopo l'evento sinaitico, avrebbero avuto doveri molto più numerosi e onerosi. Per loro il rischio di inadempienza e di sanzioni sarebbe stato molto maggiore.
I profeti vivono in una società strutturata secondo le categorie delle corti regali, dei sacerdoti (kohaniti e leviti), e della gente comune, dedita all'agricoltura, alla pastorizia e all'artigianato o al piccolo commercio. La presenza dei profeti non è organizzata: i benè-nevi’ìm (figli dei profeti), ovvero i loro allievi, non costituiscono una categoria sociale. I profeti appaiono come liberi professionisti ante litteram con molte caratteristiche comuni. Una di queste è la relazione fra i contenuti ideali e le norme della prassi religiosa.
Qualsiasi fede, per non esaurirsi, ha bisogno di entrambi. Tuttavia l'equilibrio fra ideali e prassi è difficile da trovare e ancor più da conservare. Il fare unisce gli esseri umani molto più del riflettere. Così la conservazione delle norme prevale sui principi. La gente finisce per osservare i precetti dimenticando i principi e spesso addirittura contraddicendoli. I profeti invece difendono i principi originari e ne contrastano l’oblio.
Un giudice potrebbe comminare una severa ma meritata punizione come la pena di morte. Così facendo, tuttavia, si potrebbe trovare in contrasto con il comandamento: non uccidere. Nell'eseguire una norma si potrebbe così violarne un'altra. La questione è discussa. Nella bibbia il non uccidere (lo tirtzàch) andrebbe tradotto con: non assassinare. Ovvero non uccidere per farsi giustizia da soli. Perché invece il non uccidere si esprime in altro modo (lo tamìt).
Il profeta Ezechiele annuncia che la pena di morte non è l’unica sanzione possibile per un’azione contraria alle norme (Ez 18,21-23). Esistono delle alternative. “Forse che Io auspico la morte del malvagio? – dice Dio – Ecco, se retrocedesse dal suo percorso (beshuvò miderakhàw - wechayà) sopravvivrebbe”. La radice verbale (shuv) si ritrova in un sostantivo (teshuvà) che significa risposta, azioni di rimedio, pentimento. Una conversione concreta, con i fatti, è una valida alternativa alla pena di morte.
Ezechiele è stato punito con la distruzione (churbàn) del primo tempio. Tuttavia è ancora vivo e dalla diaspora in Babilonia può tornare (shuv) nella terra d’Israele. I profeti dunque preparano un nuovo modo di leggere i doveri che derivano dalla convenzione fra Dio e il suo popolo. Un modo costruttivo, che prepara la strada alla tradizione orale, quella del secondo tempio e dell'epoca farisaica.
Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
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