Era nato l’11 maggio del 1922 e nell’estate del 1944 abitava con i genitori in vicolo Filippo Corridoni, budello di cortile che collega via Garibaldi con via Roma. Di mestiere muratore, si era rifiutato di prestare il servizio militare obbligatorio, violando l'obbligo imposto dalla legge. Fu arrestato, su ordine della questura, l’8 agosto del 1944 dalla Guardia nazionale repubblicana. Fu il duce Benito Mussolini a istituirla, con decreto legislativo dell’8 dicembre 1943, per condurre la lotta contro gli oppositori politici e i partigiani. Riuniva in un unico corpo la Milizia volontaria, la Polizia e i Carabinieri. Operò fino all’autunno del 1944, quando gli subentrarono le Brigate nere, il corpo paramilitare fascista della Repubblica di Salò o Repubblica Sociale Italiana che tra il settembre 1943 e l'aprile 1945 fu alle dipendenze della Germania nazista. A Lentate aveva sede in via Cesare Battisti ed era comandata dal tenente Dino Cappelli.
Dopo l’arresto il Caronni fu condotto nel carcere di S. Vittore a Milano. Era finito nel mirino delle Forze armate insieme ad altri quaranta renitenti di leva di Lentate come conseguenza del bando del 18 febbraio 1944 del generale Rodolfo Graziani, ministro della difesa e della guerra. Le strutture amministrative e burocratiche della Forze armate, l’anima operativa della leva, erano di stanza a Camnago, nell’ex parco del Genio militare, oggi sede della stazione ferroviaria. Della ricerca dei renitenti era incaricato il comandante della struttura, il colonnello Giulio Montaldo.
Il Comando territoriale delle regioni settentrionali d’Italia, per conto della Germania nazista, fu il compito che il generale di fanteria Rudolf Touissant, mantenne fino al 26 luglio del 1944, quando venne sostituito da Karl Wolff. A Monza aveva sede il Comando di piazza (Platzkommandatur) per il presidio del territorio. A Seveso altopiano, nella villa Dho, si era installato un Comando locale (Orstkommandatur). A Lentate c’era un Presidio di paese (Dienstelle) comandato dal maggiore Richter. Gestiva un’officina per conto dell’aeronautica tedesca. Uffici e abitazioni occupavano l’ala sud del palazzo Raimondi a Birago, requisito il 26 maggio del 1944. Il Caronni fu inviato da Milano a Bolzano l’11 novembre e, nove giorni dopo, giunse nel campo di concentramento di Mauthausen. Venne classificato schutz, deportato politico, e da quel momento identificato con il numero di matricola 110222.
Il comune di Lentate fu teatro di un massiccio rastrellamento il 21 gennaio del 1945. Centocinquanta camicie nere, guidate da Osvaldo Sala, un pezzo grosso della cosiddetta Resega milanese (la Brigata nera Aldo Resega), percorsero il centro e le frazioni alla ricerca di generi alimentari detenuti irregolarmente. Un uomo in bicicletta, con un cartoccio di tabacco sul portapacchi, non si fermò all’alt. Le camicie nere, il grado più basso della milizia volontaria, aprirono il fuoco e l’uomo morì poco dopo all’ospedale di Seregno. Nell’occasione fu fermato anche un renitente alla leva della classe 1926, non meglio identificato, la cui fine non ci è dato di conoscere. Sappiamo invece che Carlo Caronni morì quattro giorni dopo, il 25 gennaio 1945, a ventidue anni nel lager di Gusen per sevizie e maltrattamenti.
Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
mercoledì 24 aprile 2019
mercoledì 17 aprile 2019
Nevi’ìm – Profeti
Nella prima sezione della bibbia ebraica – toràh – i profeti sono singoli personaggi tra i patriarchi. Non appartengono a una categoria e non producono documenti scritti. Nella seconda sezione – nevi’ìm – i profeti si trovano in compagnia delle dodici tribù, dei giudici e dei regnanti. I profeti impongono il loro nome alla maggior parte dei libri biblici di questa sezione. La tradizione orale dell’ebraismo comincia tuttavia solo con gli scribi (soferim).
I profeti non trasmettono lo stesso messaggio al popolo ebraico e alle genti. Dopo il diluvio Dio si sarebbe impegnato a non ripetere quell’immane catastrofe. In cambio gli esseri umani si sarebbero impegnati a un certo stile di vita civile. Secondo una tarda tradizione ebraica (TB Sanhedrin 56a su Genesi 9,1-8) le genti avrebbero osservato i cosiddetti sette precetti noachidi: la proibizione di bestemmiare, di essere idolatri, di abbandonarsi alla lussuria, di versare sangue umano, di rubare, di mangiare organi di un animale vivente e l'obbligo di amministrare la giustizia. Gli ebrei, in quanto popolo scelto dopo l'evento sinaitico, avrebbero avuto doveri molto più numerosi e onerosi. Per loro il rischio di inadempienza e di sanzioni sarebbe stato molto maggiore.
I profeti vivono in una società strutturata secondo le categorie delle corti regali, dei sacerdoti (kohaniti e leviti), e della gente comune, dedita all'agricoltura, alla pastorizia e all'artigianato o al piccolo commercio. La presenza dei profeti non è organizzata: i benè-nevi’ìm (figli dei profeti), ovvero i loro allievi, non costituiscono una categoria sociale. I profeti appaiono come liberi professionisti ante litteram con molte caratteristiche comuni. Una di queste è la relazione fra i contenuti ideali e le norme della prassi religiosa.
Qualsiasi fede, per non esaurirsi, ha bisogno di entrambi. Tuttavia l'equilibrio fra ideali e prassi è difficile da trovare e ancor più da conservare. Il fare unisce gli esseri umani molto più del riflettere. Così la conservazione delle norme prevale sui principi. La gente finisce per osservare i precetti dimenticando i principi e spesso addirittura contraddicendoli. I profeti invece difendono i principi originari e ne contrastano l’oblio.
Un giudice potrebbe comminare una severa ma meritata punizione come la pena di morte. Così facendo, tuttavia, si potrebbe trovare in contrasto con il comandamento: non uccidere. Nell'eseguire una norma si potrebbe così violarne un'altra. La questione è discussa. Nella bibbia il non uccidere (lo tirtzàch) andrebbe tradotto con: non assassinare. Ovvero non uccidere per farsi giustizia da soli. Perché invece il non uccidere si esprime in altro modo (lo tamìt).
Il profeta Ezechiele annuncia che la pena di morte non è l’unica sanzione possibile per un’azione contraria alle norme (Ez 18,21-23). Esistono delle alternative. “Forse che Io auspico la morte del malvagio? – dice Dio – Ecco, se retrocedesse dal suo percorso (beshuvò miderakhàw - wechayà) sopravvivrebbe”. La radice verbale (shuv) si ritrova in un sostantivo (teshuvà) che significa risposta, azioni di rimedio, pentimento. Una conversione concreta, con i fatti, è una valida alternativa alla pena di morte.
Ezechiele è stato punito con la distruzione (churbàn) del primo tempio. Tuttavia è ancora vivo e dalla diaspora in Babilonia può tornare (shuv) nella terra d’Israele. I profeti dunque preparano un nuovo modo di leggere i doveri che derivano dalla convenzione fra Dio e il suo popolo. Un modo costruttivo, che prepara la strada alla tradizione orale, quella del secondo tempio e dell'epoca farisaica.
I profeti non trasmettono lo stesso messaggio al popolo ebraico e alle genti. Dopo il diluvio Dio si sarebbe impegnato a non ripetere quell’immane catastrofe. In cambio gli esseri umani si sarebbero impegnati a un certo stile di vita civile. Secondo una tarda tradizione ebraica (TB Sanhedrin 56a su Genesi 9,1-8) le genti avrebbero osservato i cosiddetti sette precetti noachidi: la proibizione di bestemmiare, di essere idolatri, di abbandonarsi alla lussuria, di versare sangue umano, di rubare, di mangiare organi di un animale vivente e l'obbligo di amministrare la giustizia. Gli ebrei, in quanto popolo scelto dopo l'evento sinaitico, avrebbero avuto doveri molto più numerosi e onerosi. Per loro il rischio di inadempienza e di sanzioni sarebbe stato molto maggiore.
I profeti vivono in una società strutturata secondo le categorie delle corti regali, dei sacerdoti (kohaniti e leviti), e della gente comune, dedita all'agricoltura, alla pastorizia e all'artigianato o al piccolo commercio. La presenza dei profeti non è organizzata: i benè-nevi’ìm (figli dei profeti), ovvero i loro allievi, non costituiscono una categoria sociale. I profeti appaiono come liberi professionisti ante litteram con molte caratteristiche comuni. Una di queste è la relazione fra i contenuti ideali e le norme della prassi religiosa.
Qualsiasi fede, per non esaurirsi, ha bisogno di entrambi. Tuttavia l'equilibrio fra ideali e prassi è difficile da trovare e ancor più da conservare. Il fare unisce gli esseri umani molto più del riflettere. Così la conservazione delle norme prevale sui principi. La gente finisce per osservare i precetti dimenticando i principi e spesso addirittura contraddicendoli. I profeti invece difendono i principi originari e ne contrastano l’oblio.
Un giudice potrebbe comminare una severa ma meritata punizione come la pena di morte. Così facendo, tuttavia, si potrebbe trovare in contrasto con il comandamento: non uccidere. Nell'eseguire una norma si potrebbe così violarne un'altra. La questione è discussa. Nella bibbia il non uccidere (lo tirtzàch) andrebbe tradotto con: non assassinare. Ovvero non uccidere per farsi giustizia da soli. Perché invece il non uccidere si esprime in altro modo (lo tamìt).
Il profeta Ezechiele annuncia che la pena di morte non è l’unica sanzione possibile per un’azione contraria alle norme (Ez 18,21-23). Esistono delle alternative. “Forse che Io auspico la morte del malvagio? – dice Dio – Ecco, se retrocedesse dal suo percorso (beshuvò miderakhàw - wechayà) sopravvivrebbe”. La radice verbale (shuv) si ritrova in un sostantivo (teshuvà) che significa risposta, azioni di rimedio, pentimento. Una conversione concreta, con i fatti, è una valida alternativa alla pena di morte.
Ezechiele è stato punito con la distruzione (churbàn) del primo tempio. Tuttavia è ancora vivo e dalla diaspora in Babilonia può tornare (shuv) nella terra d’Israele. I profeti dunque preparano un nuovo modo di leggere i doveri che derivano dalla convenzione fra Dio e il suo popolo. Un modo costruttivo, che prepara la strada alla tradizione orale, quella del secondo tempio e dell'epoca farisaica.
mercoledì 10 aprile 2019
Una discussione
Il Talmud babilonese, nel trattato Baba Metzià, al foglio 59b, riporta una lunga discussione sulla catastrofe che nel 70 dell'era volgare, o dopo Cristo se preferite, colpisce l'ebraismo in terra d'Israele per mezzo dell'impero romano.
Il maestro ebreo Yochanàn ben Zakkai, che come un profeta vede l'ebraismo sopravvivere oltre la catastrofe, si accorda con il futuro imperatore romano Vespasiano. Yochanàn esce da Gerusalemme per fondare a Yavne, presso Giaffa, una casa di studio, o una sinagoga, se preferite.
In questo luogo rabbi Elièzer ingaggia una disputa con altri saggi su un argomento solo apparentemente insignificante. Si discute se i prodotti del fornaio Akhnai siano kashèr, o puri, se preferite. Ovvero se quanto esce dal forno di Akhnai possa essere consumato dagli ebrei osservanti oppure no.
Durante la discussione ciascuno dei contendenti, per dimostrare di avere ragione, chiama in causa la creazione, o il Creatore, se preferite. Così avviene che un ruscello inverta la sua corsa e scorra verso il monte, che un albero di carrube si sradichi dal terreno e voli a trapiantarsi da un'altra parte, che persino si faccia udire da tutti i presenti una bat qol, o una voce dal cielo, se preferite.
Elièzer ha ragione, afferma la voce dal cielo, o il Creatore, se preferite. Tuttavia la maggioranza dei saggi presenti alla discussione è d'accordo nel dare ragione ai contendenti di Elièzer. Il povero rabbi viene persino scomunicato, e suo cognato Gamalìel, in quel momento presidente del Sinedrio, o dell'assemblea dei saggi, se preferite, ratifica la decisione.
Quando rabbi Aqivà comunica a Elièzer quanto deciso dal Sinedrio, lo sguardo dello sconfitto incenerisce i campi e, a dimostrazione che il Creatore è dalla sua parte, Gamalìel rischia persino di affogare a causa di una tempesta. Si salva in extremis giustificandosi con il Creatore per aver inteso preservare la concordia in Israele.
Pare tuttavia che il Creatore, al momento della decisione del Sinedrio, abbia gioito pensando che i suoi figli l'avevano sconfitto.
Il maestro ebreo Yochanàn ben Zakkai, che come un profeta vede l'ebraismo sopravvivere oltre la catastrofe, si accorda con il futuro imperatore romano Vespasiano. Yochanàn esce da Gerusalemme per fondare a Yavne, presso Giaffa, una casa di studio, o una sinagoga, se preferite.
In questo luogo rabbi Elièzer ingaggia una disputa con altri saggi su un argomento solo apparentemente insignificante. Si discute se i prodotti del fornaio Akhnai siano kashèr, o puri, se preferite. Ovvero se quanto esce dal forno di Akhnai possa essere consumato dagli ebrei osservanti oppure no.
Durante la discussione ciascuno dei contendenti, per dimostrare di avere ragione, chiama in causa la creazione, o il Creatore, se preferite. Così avviene che un ruscello inverta la sua corsa e scorra verso il monte, che un albero di carrube si sradichi dal terreno e voli a trapiantarsi da un'altra parte, che persino si faccia udire da tutti i presenti una bat qol, o una voce dal cielo, se preferite.
Elièzer ha ragione, afferma la voce dal cielo, o il Creatore, se preferite. Tuttavia la maggioranza dei saggi presenti alla discussione è d'accordo nel dare ragione ai contendenti di Elièzer. Il povero rabbi viene persino scomunicato, e suo cognato Gamalìel, in quel momento presidente del Sinedrio, o dell'assemblea dei saggi, se preferite, ratifica la decisione.
Quando rabbi Aqivà comunica a Elièzer quanto deciso dal Sinedrio, lo sguardo dello sconfitto incenerisce i campi e, a dimostrazione che il Creatore è dalla sua parte, Gamalìel rischia persino di affogare a causa di una tempesta. Si salva in extremis giustificandosi con il Creatore per aver inteso preservare la concordia in Israele.
Pare tuttavia che il Creatore, al momento della decisione del Sinedrio, abbia gioito pensando che i suoi figli l'avevano sconfitto.
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