mercoledì 23 maggio 2018

Domenica di Pentecoste



Un commento alle letture ambrosiane della domenica di pentecoste:

1.     Atti degli apostoli 2,1-11;
2.     Salmo 103 (104)
3.     Prima lettera ai Corinzi 12,1-11;
4.     Vangelo di Giovanni 14,15-20.

Si tratta di quattro letture bibliche assai diverse tra loro. Per lingua: il salmo è in ebraico, le altre in greco. Per epoca di composizione: almeno 6 secoli prima di Gesù il salmo, dall’anno 55 al 100 le altre. Per appartenenza degli autori: Luca è greco, Paolo (Shaùl), Davide (Davìd) e Giovanni (Yochanàn) sono ebrei. Per obiettivi: Luca storici, Giovanni simbolici, Davide di lode, Paolo di istruzione. Dentro questa pluralità di obiettivi, stili, tempi e personaggi, la liturgia cerca un unico protagonista.
Luca lo chiama Spirito Santo, Paolo spirito di Dio, Davide usa il termine ebraico femminile che sta per respiro, soffio, vento (rùach), Giovanni il greco maschile che indica un consolatore, intercessore, avvocato (paràclito).
Già qui abbiamo la dialettica uno/molti, singolo/multiplo, unità/pluralità.


Delle quattro letture ne scelgo una e la calerò nel contesto ebraico. Farò il contrario di quel che si fa di solito: leggerò il NT alla luce delle scritture ebraiche e della tradizione vivente di Israele.
Luca non è ebreo, è un pagano di Antiochia, un gentile. Secondo le scritture sacre l’umanità è un insieme di 70 popoli. Il numero 7 è simbolo di pienezza: nel 7° giorno Dio, riposando, completò la creazione. Sempre secondo le scritture sacre Israele è proprietà particolare (segullàh) di Dio. Anche gli altri 69 popoli, pur essendo opera del creatore, sono riservati a qualcosa di diverso da Israele.
L’immagine del primogenito rende l’idea. I figli nati dopo di lui non sono per questo meno amati dalla madre o dal padre. Luca si sente appunto uno di questi figli. Non appartiene a Israele, ma alle genti, è un gentile.
Luca è medico (dice la lettera ai Colossesi 4,14) e uomo di cultura. Conosce i classici greci e la traduzione della Bibbia fatta dai Settanta saggi ebrei. Pensa diversamente da Paolo. Non è polemico con la legge. Per un gentile non sono determinanti i 613 precetti che gli ebrei sono chiamati a rispettare. Anche il Paolo descritto da Luca è diverso da quello delle lettere. È un buon oratore, compie miracoli, ma non è un apostolo.
Lo scenario degli Atti degli apostoli è l’intera terra abitata (oikouméne). Dopo l’ascensione di Gesù gli angeli chiedono agli apostoli: perché state a guardare il cielo? (Atti 1,11). Poco prima Gesù ha detto loro: mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (Atti 1,8).
Il libro degli Atti è infatti diviso in due parti. Nella prima parte c’è la chiesa di Gerusalemme inaugurata dalla pentecoste. Nella seconda parte Paolo porta la sua testimonianza prima ad Atene, il centro culturale dell’impero, poi a Roma, il centro politico. Fino ai confini della terra allora conosciuta.

La chiesa di Gerusalemme è composta da 120 uomini e donne ebrei radunati nel cenacolo (Atti 1,15). Dopo la pentecoste si aggiungeranno 3 mila uomini e donne ebrei della diaspora e gentili prosèliti (Atti 2,41). Quelli della diaspora sono ebrei di lingue e culture diverse, vivono fuori dalla terra d’Israele, spesso per intendersi parlano greco. I prosèliti sono stranieri (non-ebrei) che risiedono in terra d’Israele e che hanno pressoché gli stessi diritti degli ebrei. Gli uomini circoncisi possono anche prendere parte alla vita religiosa pubblica del popolo d’Israele.
Siamo negli anni dal 30 al 34 dopo l’era volgare o dopo Cristo. La scrittura sacra di ebrei e prosèliti è la Toràh. La bibbia ebraica che fu anche di Gesù. All’ora nona (Atti 2,46), le 3 del pomeriggio (Atti 3,1), ebrei e prosèliti pregano nel tempio di Gerusalemme. Gli apostoli sono 12 come le tribù d’Israele. Sono tutti giudei o galilei e si occupano dei fedeli di lingua ebraica (Atti 6,1-7). I discepoli sono 7 per i 70 popoli della terra. In greco si prendono cura degli ebrei della diaspora e dei prosèliti. Anche i discepoli sono ebrei, tranne Nicola, gentile e prosèlito di Antiochia.
Questa di Gerusalemme è una chiesa/madre. Una chiesa ebraica. Da lei nascerà la chiesa/figlia di Antiochia da cui partirà Paolo per i suoi viaggi missionari. Altre chiese/figlie nasceranno. Ecco la natura della chiesa. Se la chiesa di Gerusalemme, a maggioranza ebraica, ha una forma, quella di Antiochia, a maggioranza gentile, ha una forma diversa. Nella chiesa è già avvenuta una riforma. Da qui ai confini della terra le chiese assumeranno altre forme diverse.

Ma torniamo nel cenacolo. Perché i 120 si sono radunati qui? Al tempo di Gesù c’erano 3 feste di pellegrinaggio a Gerusalemme. La prima è la festa della primavera e della resurrezione della vegetazione: la pasqua (pèsach). La seconda è la festa dell’estate e della raccolta o mietitura: settimane (shavu’ot) per le 7 settimane che la separano dalla pasqua. La terza è la festa dell’autunno e della vendemmia: capanne o tabernacoli (succòt). Dunque i 120 sono radunati per celebrare la pentecoste.
Shavu’ot è per gli ebrei il tempo in cui fu data la Toràh (zemàn mattàn toratènu). In questa festa essi ricordano la rivelazione di Dio sul monte Sinài. In questa notte fanno tre letture. Leggono uno dei cinque rotoli (meghillòt), quello di Rut, perché le vicende di questa antenata di Davide si svolgono nel tempo della mietitura. Poi leggono gli elenchi (chàzarot) dei 613 precetti. Infine leggono la sezione di Ietro (parashàh Jitrò) suocero di Mosè (ovvero Esodo 18-20), dove si racconta di un Mosè alpinista che sale sul monte a ricevere le tavole della legge, le dieci parole. Durante la pentecoste gli ebrei mangiano latticini per tre motivi. Perché Israele è appena nato sul Sinài e non è ancora svezzato. Perché nella scrittura sacra, dopo la descrizione della festa di shavu’ot, c’è il precetto di non cuocere il capretto nel latte di sua madre. Perché la Toràh è come la terra promessa: latte e miele.

Quindi nel cenacolo ci sono i dodici, con Mattia che ha preso il posto di Giuda, Maria, la madre di Gesù, e altre donne. Ci sono tutti gli apostoli, come tutto il popolo stava ai piedi del monte Sinài. Ed ecco un fragore, un vento impetuoso e delle lingue di fuoco, come sul monte i tuoni, i lampi e la nube densa (Esodo 19,16-18).
C’è qui uno schema retorico tipico dei profeti e della sapienza. Tre cose, anzi quattro. Tuoni, lampi, nube densa e in più la Toràh. Fragore, vento, fuoco e in più lo spirito. Dio non è assente nelle tre, ma è presente in particolare nella quarta. La Toràh sul monte, lo spirito nel cenacolo.
C’è un racconto (midràsh aggadàh) nei libri di studio (talmùd) ebraico di Gerusalemme. Due maestri (rabbì) del 1°/2° secolo, Eli’èzer e Yehoshùa, stanno facendo collane (chorezìm), cioè citano le parole della Toràh, le infilano come se fossero perle. Ed ecco quelle parole diventano gioiose come erano sul monte. E da cosa lo si capisce? Il fuoco si mette a leccarle. Negli stessi libri, ma in un altro trattato, un maestro del 1° secolo, Yochanàn, sta commentando il salmo 68. Al versetto 12 legge: il Signore ha dato una parola, annunci per una schiera numerosa. Yochanàn commenta: ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza (cioè di Dio) sul monte Sinài si divideva in 70 lingue.
Dunque cosa fa lo spirito? Estende la parola di Dio all’umanità, allarga i paletti della tenda d’Israele, rende partecipi dell’alleanza del monte tutte le genti. Tutti, fino a me, a te. È l’eredità più preziosa dei farisei e dei rabbini. La parola di Dio è una ricchezza inesauribile. Può essere intesa secondo le molte potenzialità umane. Paolo De Benedetti parlava del 71° senso. Ogni parola della scrittura sacra ha 70 sensi e a me qui e ora è destinato un 71° senso. E qualcosa nell’economia del mondo si perde se io non lo trovo.

Nella sua lettera Paolo scrive: quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti. Gli idoli, plurale. E poi: nessuno può dire "Gesù è Signore!" se non sotto l'azione dello Spirito Santo. I testimoni, plurale. E ancora: diversi sono i carismi, i ministeri, le attività. Plurale. E poi: uno solo è Dio, che opera tutto in tutti, uno è il Signore (Gesù), uno è lo Spirito Santo. Cosa sta più a cuore a Paolo: la pluralità o l’unità?
Nel suo vangelo Giovanni scrive: io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito. E ancora: voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Dunque cosa conta di più? L’unità o la diversità? Entrambe, a patto che siano in Cristo. Perché l’unità cristiana è multiforme e la diversità cristiana è concorde. La comunità cristiana è reciprocità. La docilità o è reciproca o è falsa. La comunione o è fraterna o è gerarchica e falsa. La vita secondo lo spirito o è libertà o è dipendenza e falsa. Il cristianesimo richiede una sincerità (parrèsia) che nella chiesa, non solo per timidezza, spesso manca.

Inoltre deve essere chiari che la chiesa non è la bella (o brutta) copia di Israele. Nessun copia e incolla. Israele è ancora il popolo di Dio. La prima alleanza non è scaduta. La chiesa non è un nuovo popolo di Dio, non è nemmeno un popolo, è formata da genti che appartengono ai diversi popoli del mondo. Il dialogo dunque non è tra Israele e la chiesa, ma tra Israele e le genti. La pentecoste chiede di ripensare l’immagine di chiesa.

Infine spesso la pentecoste cristiana viene affiancata alla torre di Babele (Genesi 11,1-9). Dio che moltiplica le lingue, che punisce il peccato d’orgoglio di Babele, che castiga nelle scritture d’Israele e premia nelle scritture cristiane. Si annida qui una tentazione. Una confusione di Babele/Babilonia.
Nel racconto di Babele l’umanità si stanzia nella pianura di Scin’ar. Si fanno un paio di scoperte tecnologiche. Quella terra è ricca di bitume, che si può utilizzare al posto della calce. Per fare la calce bisogna cuocere a lungo dei materiali calcarei. Col bitume si guadagna tempo. La seconda scoperta è che col fuoco si possono cuocere i mattoni, anziché lasciarli essiccare al sole. Altro risparmio di tempo. L’edilizia subisce un’accelerazione. In breve si può costruire una città e una torre che raggiunga il cielo.
Gli ebrei la scoprono quando vengono deportati in Babilonia. È la ziggurat, tempio a forma di gradoni con in cima la cella del dio Mardùk, trovata in diverse città della Mesopotamia. Una delle torri più grandiose, detta Etemenànki (casa della fondazione del cielo e della terra), era appunto quella di Babele
Ed ecco la tentazione. Ci cascano i cristiani, ma non solo. Dio avrebbe paura degli uomini, sarebbe invidioso, confonderebbe le lingue, ristabilirebbe la distanza tra il cielo e la terra. Gli uomini, che non si comprendono più, rinunciano all’opera e si disperdono su tutta la terra.
Ma accostare i due testi è sbagliato. A Babele gli uomini arrivano da occidente; a Gerusalemme per la pentecoste preferibilmente dall’oriente. A Babele parlano una sola lingua, si capiscono benissimo; a Gerusalemme parlano 70 lingue diverse, faticano ad intendersi. A Babele fanno tutti lo stesso lavoro, hanno come unico obiettivo la torre; a Gerusalemme stanno il tempo di una festa, poi torneranno ciascuno al proprio paese e lavoro.
Ciò che accomuna Babele e Gerusalemme è la misericordia di Dio. Dio moltiplica le lingue dei cittadini di Babele, li restituisce alle molte mansioni della terra, li distoglie da un vicolo cieco. A Gerusalemme moltiplica la sua parola, estende a tutti la rivelazione del monte, li restituisce ai loro paesi come figli e figlie dello stesso Dio.
La dispersione delle lingue, dei mestieri, delle fedi non è affatto una punizione. È misericordia di Dio che, come scrive Erri De Luca, non abbiamo ancora imparato ad apprezzare.

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