Un commento alle letture ambrosiane della domenica di pentecoste:
1. Atti degli apostoli 2,1-11;
2. Salmo 103 (104)
3. Prima lettera ai Corinzi 12,1-11;
4. Vangelo di Giovanni 14,15-20.
Si
tratta di quattro letture bibliche assai diverse tra loro. Per lingua: il salmo
è in ebraico, le altre in greco. Per epoca di composizione: almeno 6 secoli
prima di Gesù il salmo, dall’anno 55 al 100 le altre. Per appartenenza degli autori:
Luca è greco, Paolo (Shaùl), Davide (Davìd) e Giovanni (Yochanàn) sono ebrei.
Per obiettivi: Luca storici, Giovanni simbolici, Davide di lode, Paolo di
istruzione. Dentro questa pluralità di obiettivi, stili, tempi e personaggi, la
liturgia cerca un unico protagonista.
Luca
lo chiama Spirito Santo, Paolo spirito di Dio, Davide usa il termine ebraico
femminile che sta per respiro, soffio, vento (rùach), Giovanni il greco
maschile che indica un consolatore, intercessore, avvocato (paràclito).
Già
qui abbiamo la dialettica uno/molti, singolo/multiplo, unità/pluralità.
Delle
quattro letture ne scelgo una e la calerò nel contesto ebraico. Farò il
contrario di quel che si fa di solito: leggerò il NT alla luce delle scritture
ebraiche e della tradizione vivente di Israele.
Luca
non è ebreo, è un pagano di Antiochia, un gentile. Secondo le scritture sacre l’umanità
è un insieme di 70 popoli. Il numero 7 è simbolo di pienezza: nel 7° giorno Dio,
riposando, completò la creazione. Sempre secondo le scritture sacre Israele è
proprietà particolare (segullàh) di Dio. Anche gli altri 69 popoli, pur essendo
opera del creatore, sono riservati a qualcosa di diverso da Israele.
L’immagine
del primogenito rende l’idea. I figli nati dopo di lui non sono per questo meno
amati dalla madre o dal padre. Luca si sente appunto uno di questi figli. Non
appartiene a Israele, ma alle genti, è un gentile.
Luca
è medico (dice la lettera ai Colossesi 4,14) e uomo di cultura. Conosce i
classici greci e la traduzione della Bibbia fatta dai Settanta saggi ebrei. Pensa
diversamente da Paolo. Non è polemico con la legge. Per un gentile non sono
determinanti i 613 precetti che gli ebrei sono chiamati a rispettare. Anche il Paolo
descritto da Luca è diverso da quello delle lettere. È un buon oratore, compie
miracoli, ma non è un apostolo.
Lo
scenario degli Atti degli apostoli è l’intera terra abitata (oikouméne). Dopo
l’ascensione di Gesù gli angeli chiedono agli apostoli: perché state a guardare
il cielo? (Atti 1,11). Poco prima Gesù ha detto loro: mi sarete testimoni a
Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della
terra (Atti 1,8).
Il
libro degli Atti è infatti diviso in due parti. Nella prima parte c’è la chiesa
di Gerusalemme inaugurata dalla pentecoste. Nella seconda parte Paolo porta la
sua testimonianza prima ad Atene, il centro culturale dell’impero, poi a Roma,
il centro politico. Fino ai confini della terra allora conosciuta.
La
chiesa di Gerusalemme è composta da 120 uomini e donne ebrei radunati nel cenacolo
(Atti 1,15). Dopo la pentecoste si aggiungeranno 3 mila uomini e donne ebrei della
diaspora e gentili prosèliti (Atti 2,41). Quelli della diaspora sono ebrei di lingue
e culture diverse, vivono fuori dalla terra d’Israele, spesso per intendersi parlano
greco. I prosèliti sono stranieri (non-ebrei) che risiedono in terra d’Israele
e che hanno pressoché gli stessi diritti degli ebrei. Gli uomini circoncisi possono
anche prendere parte alla vita religiosa pubblica del popolo d’Israele.
Siamo
negli anni dal 30 al 34 dopo l’era volgare o dopo Cristo. La scrittura sacra di
ebrei e prosèliti è la Toràh. La bibbia ebraica che fu anche di Gesù. All’ora
nona (Atti 2,46), le 3 del pomeriggio (Atti 3,1), ebrei e prosèliti pregano nel
tempio di Gerusalemme. Gli apostoli sono 12 come le tribù d’Israele. Sono tutti
giudei o galilei e si occupano dei fedeli di lingua ebraica (Atti 6,1-7). I discepoli
sono 7 per i 70 popoli della terra. In greco si prendono cura degli ebrei della
diaspora e dei prosèliti. Anche i discepoli sono ebrei, tranne Nicola, gentile
e prosèlito di Antiochia.
Questa
di Gerusalemme è una chiesa/madre. Una chiesa ebraica. Da lei nascerà la
chiesa/figlia di Antiochia da cui partirà Paolo per i suoi viaggi missionari.
Altre chiese/figlie nasceranno. Ecco la natura della chiesa. Se la chiesa di
Gerusalemme, a maggioranza ebraica, ha una forma, quella di Antiochia, a
maggioranza gentile, ha una forma diversa. Nella chiesa è già avvenuta una
riforma. Da qui ai confini della terra le chiese assumeranno altre forme
diverse.
Ma
torniamo nel cenacolo. Perché i 120 si sono radunati qui? Al tempo di Gesù
c’erano 3 feste di pellegrinaggio a Gerusalemme. La prima è la festa della
primavera e della resurrezione della vegetazione: la pasqua (pèsach). La
seconda è la festa dell’estate e della raccolta o mietitura: settimane (shavu’ot)
per le 7 settimane che la separano dalla pasqua. La terza è la festa
dell’autunno e della vendemmia: capanne o tabernacoli (succòt). Dunque i 120 sono
radunati per celebrare la pentecoste.
Shavu’ot
è per gli ebrei il tempo in cui fu data la Toràh (zemàn mattàn toratènu). In
questa festa essi ricordano la rivelazione di Dio sul monte Sinài. In questa
notte fanno tre letture. Leggono uno dei cinque rotoli (meghillòt), quello di
Rut, perché le vicende di questa antenata di Davide si svolgono nel tempo della
mietitura. Poi leggono gli elenchi (chàzarot) dei 613 precetti. Infine leggono
la sezione di Ietro (parashàh Jitrò) suocero di Mosè (ovvero Esodo 18-20), dove
si racconta di un Mosè alpinista che sale sul monte a ricevere le tavole della
legge, le dieci parole. Durante la pentecoste gli ebrei mangiano latticini per
tre motivi. Perché Israele è appena nato sul Sinài e non è ancora svezzato. Perché
nella scrittura sacra, dopo la descrizione della festa di shavu’ot, c’è il
precetto di non cuocere il capretto nel latte di sua madre. Perché la Toràh è
come la terra promessa: latte e miele.
Quindi
nel cenacolo ci sono i dodici, con Mattia che ha preso il posto di Giuda,
Maria, la madre di Gesù, e altre donne. Ci sono tutti gli apostoli, come tutto
il popolo stava ai piedi del monte Sinài. Ed ecco un fragore, un vento
impetuoso e delle lingue di fuoco, come sul monte i tuoni, i lampi e la nube
densa (Esodo 19,16-18).
C’è
qui uno schema retorico tipico dei profeti e della sapienza. Tre cose, anzi
quattro. Tuoni, lampi, nube densa e in più la Toràh. Fragore, vento, fuoco e in
più lo spirito. Dio non è assente nelle tre, ma è presente in particolare nella
quarta. La Toràh sul monte, lo spirito nel cenacolo.
C’è
un racconto (midràsh aggadàh) nei libri di studio (talmùd) ebraico di
Gerusalemme. Due maestri (rabbì) del 1°/2° secolo, Eli’èzer e Yehoshùa, stanno facendo
collane (chorezìm), cioè citano le parole della Toràh, le infilano come se
fossero perle. Ed ecco quelle parole diventano gioiose come erano sul monte. E
da cosa lo si capisce? Il fuoco si mette a leccarle. Negli stessi libri, ma in
un altro trattato, un maestro del 1° secolo, Yochanàn, sta commentando il salmo
68. Al versetto 12 legge: il Signore ha dato una parola, annunci per una
schiera numerosa. Yochanàn commenta: ogni parola che usciva dalla bocca della
Potenza (cioè di Dio) sul monte Sinài si divideva in 70 lingue.
Dunque
cosa fa lo spirito? Estende la parola di Dio all’umanità, allarga i paletti
della tenda d’Israele, rende partecipi dell’alleanza del monte tutte le genti.
Tutti, fino a me, a te. È l’eredità più preziosa dei farisei e dei rabbini. La
parola di Dio è una ricchezza inesauribile. Può essere intesa secondo le molte
potenzialità umane. Paolo De Benedetti parlava del 71° senso. Ogni parola della
scrittura sacra ha 70 sensi e a me qui e ora è destinato un 71° senso. E
qualcosa nell’economia del mondo si perde se io non lo trovo.
Nella sua lettera Paolo scrive: quando
eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti. Gli idoli,
plurale. E poi: nessuno può
dire "Gesù è Signore!" se non sotto l'azione dello Spirito Santo. I
testimoni, plurale. E ancora: diversi sono i carismi, i ministeri, le attività.
Plurale. E poi: uno solo è Dio, che opera tutto in tutti, uno è il Signore
(Gesù), uno è lo Spirito Santo. Cosa sta più a cuore a Paolo: la pluralità o
l’unità?
Nel suo vangelo Giovanni scrive: io pregherò il Padre ed egli vi
darà un altro Paràclito. E ancora: voi saprete che io sono nel Padre mio e voi
in me e io in voi. Dunque cosa conta di più? L’unità o la
diversità? Entrambe, a patto che siano in Cristo. Perché l’unità cristiana è
multiforme e la diversità cristiana è concorde. La comunità cristiana è reciprocità. La docilità o è reciproca o è
falsa. La comunione o è fraterna o è gerarchica e falsa. La vita secondo lo
spirito o è libertà o è dipendenza e falsa. Il cristianesimo richiede una
sincerità (parrèsia) che nella chiesa, non solo per
timidezza, spesso manca.
Inoltre deve essere chiari che la chiesa non è la
bella (o brutta) copia di Israele. Nessun copia e incolla. Israele è ancora il
popolo di Dio. La prima alleanza non è scaduta. La chiesa non è un nuovo popolo
di Dio, non è nemmeno un popolo, è formata da genti che appartengono ai diversi
popoli del mondo. Il dialogo dunque non è tra Israele e la chiesa, ma tra Israele
e le genti. La pentecoste chiede di ripensare l’immagine di chiesa.
Infine
spesso la pentecoste cristiana viene affiancata alla torre di Babele (Genesi
11,1-9). Dio che moltiplica le lingue, che punisce il peccato d’orgoglio di
Babele, che castiga nelle scritture d’Israele e premia nelle scritture
cristiane. Si annida qui una tentazione. Una confusione di Babele/Babilonia.
Nel
racconto di Babele l’umanità si stanzia nella pianura di Scin’ar. Si fanno un
paio di scoperte tecnologiche. Quella terra è ricca di bitume, che si può utilizzare
al posto della calce. Per fare la calce bisogna cuocere a lungo dei materiali
calcarei. Col bitume si guadagna tempo. La seconda scoperta è che col fuoco si possono
cuocere i mattoni, anziché lasciarli essiccare al sole. Altro risparmio di
tempo. L’edilizia subisce un’accelerazione. In breve si può costruire una città
e una torre che raggiunga il cielo.
Gli
ebrei la scoprono quando vengono deportati in Babilonia. È la ziggurat, tempio
a forma di gradoni con in cima la cella del dio Mardùk, trovata in diverse
città della Mesopotamia. Una delle torri più grandiose, detta Etemenànki (casa della
fondazione del cielo e della terra), era appunto quella di Babele
Ed
ecco la tentazione. Ci cascano i cristiani, ma non solo. Dio avrebbe paura
degli uomini, sarebbe invidioso, confonderebbe le lingue, ristabilirebbe la
distanza tra il cielo e la terra. Gli uomini, che non si comprendono più, rinunciano
all’opera e si disperdono su tutta la terra.
Ma
accostare i due testi è sbagliato. A Babele gli uomini arrivano da occidente; a
Gerusalemme per la pentecoste preferibilmente dall’oriente. A Babele parlano
una sola lingua, si capiscono benissimo; a Gerusalemme parlano 70 lingue
diverse, faticano ad intendersi. A Babele fanno tutti lo stesso lavoro, hanno
come unico obiettivo la torre; a Gerusalemme stanno il tempo di una festa, poi
torneranno ciascuno al proprio paese e lavoro.
Ciò
che accomuna Babele e Gerusalemme è la misericordia di Dio. Dio moltiplica le
lingue dei cittadini di Babele, li restituisce alle molte mansioni della terra,
li distoglie da un vicolo cieco. A Gerusalemme moltiplica la sua parola,
estende a tutti la rivelazione del monte, li restituisce ai loro paesi come
figli e figlie dello stesso Dio.
La
dispersione delle lingue, dei mestieri, delle fedi non è affatto una punizione.
È misericordia di Dio che, come scrive Erri De Luca, non abbiamo ancora
imparato ad apprezzare.
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