Ebrei e cristiani discutono delle rispettive comunità di appartenenza. Per i cristiani la relazione tra Chiesa e Israele si inscrive nel quadro della teologia delle religioni. Oggi si ricorre spesso all’espressione “semi del Verbo” (lagoi spermatikoi) che risale al martire Giustino e risente di dottrine stoiche e medio-platoniche. Il Logos divino, cioè la Parola di Dio fatta persona in Gesù Cristo, depone in ogni uomo i suoi semi e diviene perciò Logos spermatikos (Verbo inseminatore). Il logos umano partecipa dunque del Verbo divino e, come tale, può giungere alla conoscenza delle verità fondamentali. In altri termini, in ogni uomo brilla un raggio di verità, il cui fondamento si trova nel Verbo di Dio, cioè nel Figlio che sta presso il Padre. Ma nell’ebraismo c’è di più perché il cristianesimo nasce come movimento ebraico. Solo come conseguenza del cosiddetto concilio di Gerusalemme la Chiesa e Israele prendono strade diverse. La Bibbia racconta di come gli apostoli decisero che per diventare cristiani non occorreva convertirsi previamente all’ebraismo (Atti 15,1- 29). La relazione che la Chiesa intrattiene con Israele non è paragonabile a nessun’altra. L’apostolo Paolo afferma che gli ebrei “possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi” e che “da essi proviene Cristo secondo la carne” (Romani 9,1-5). Per questo il cristiano sa che Israele è la sua radice e non ha nulla di cui vantarsi. Paolo scrive: “sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te” (Romani 11,16-18). Alla relazione tra chiese cristiane e popolo d’Israele è dedicato il volume Secondo le Scritture a cura di Gianfranco Bottoni e Luigi Nason. Il saggio di Diego Bottoni, che discute la pertinenza della categoria di popolo di Dio applicato alla Chiesa, si conclude con questa sorta di regola ermeneutica: “Nel modo di intendere l’espressione popolo di Dio, quando la si trovi adoperata per designare la Chiesa, sarebbe bene attenersi al senso aperto, vario e complesso che popolo di Dio assume nei testi liturgici e in particolare nell’uso liturgico dei Salmi, dove il riferimento primo è sempre a Israele; e la Chiesa, che pure in quella espressione si riconosce, è consapevole di condividerla con Israele, nell’attesa che il disegno del Signore si compia sull’unico suo popolo” (Gianfranco Bottoni - Luigi Nason, Secondo le Scritture. Chiese cristiane e popolo di Dio, EDB, Bologna 2002).
Ebrei e cristiani discutono anche di Gesù di Nazareth, che per i cristiani è il Cristo, il messia atteso da Israele. Così nel canto del Magnificat la madre che porta in grembo Gesù dice che Dio “ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia” (Luca 1,46-55). Così nel Nunc dimittis il saggio Simeone dice a Dio che Gesù è “luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2,25-32). Lo schema, tuttavia, non è binario: promessa-compimento. Gesù non chiude le promesse di Dio a Israele. Lo schema è ternario: promessa-attuazione-compimento. Gesù attua le promesse nell’attesa del giorno in cui Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Apocalisse 21,1-12).
La religione di Gesù l’ebreo (Cittadella, Assisi 2002) è l’opera conclusiva, pubblicata a Londra nel 1993, di una trilogia che Geza Vermes, studioso del giudaismo rabbinico e dei manoscritti di Qumran, ha aperto nel 1973 con Jesus the Jew e proseguito nel 1983 con Jesus and the World of Judaism. Anzitutto il Gesù descritto da Vermes è un maestro carismatico di umili origini galilee, un sapiente consapevole della sua missione tra la gente semplice, che trae la sua autorità dalla capacità di operare guarigioni e non ricerca titoli da profeta. Qualifiche quali Messia o Figlio di Dio, inteso in senso cristologico, sono attribuzioni tarde del cristianesimo. La religione di Gesù l’ebreo è improntata sulla parola di Dio ed è profondamente escatologica. Il Dio di Gesù l’ebreo è un padre e la Torah è per Gesù la parola di Dio da osservare e nello stesso tempo da orientare a una finalità ultima che non è giuridica ma etico-religiosa. Bastano queste poche note per comprendere come il dialogo su questo punto è quanto mai aperto e complesso.
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