Cosa
Ebrei e cristiani discutono di tutto. Sarebbe pretenzioso anche solo un indice delle principali questioni affrontate. Così come sarebbe fuorviante pensare che merita l’appellativo di dialogo la sola attività diplomatica. Ecco quanto scrisse una dozzina di armi fa il giudaista Paolo De Benedetti a proposito dell’accordo tra gli Stati Vaticano e d’Israele: “Mi pare innegabile che le motivazioni (dell’accordo), specie da parte vaticana, siano precisamente: a) non essere tagliati fuori dalle trattative israelo-palestinesi e dai loro effetti sulle situazioni concrete, in modo da b) guadagnare tutto il guadagnabile in questioni come: proprietà di istituzioni e luoghi santi, esenzioni fiscali, diritti e privilegi vari, c) approfittare di un momento in cui è meno temibile la reazione degli stati arabi. Non si spiega altrimenti che ciò avvenga dopo 46 anni di dinieghi alle ripetute (e fin troppo insistite) richieste israeliane... Vedo con un certo timore la ricaduta di questo accordo: il Vaticano non è la Chiesa, Israele non è l’ebraismo” (A proposito dell’accordo Vaticano-Israele, SeFeR n. 65/1994).
Ebrei e cristiani discutono della parola di Dio. La Bibbia è un po’ la carta costituzionale della relazione tra ebrei e cristiani. Non è tuttavia corretto parlare di una Bibbia. La Bibbia ebraica è diversa da quella cristiana e la Bibbia cattolica non coincide con quella protestante. Anche dire che tutte queste Bibbie hanno in comune l’Antico Testamento cristiano è inesatto per numero e disposizione dei libri. Inoltre l’interpretazione non è identica. Si prenda come esempio i canti del servo del Signore del profeta Isaia. Nel secondo canto Dio dice “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria” (Isaia 49,1-6). Qui il servo di Dio è il popolo d’Israele. Nel quarto canto (Isaia 53, 7-10), proclamato nella liturgia cattolica del venerdì santo, il servo è Gesù. Come conciliare queste due differenti interpretazioni della stessa Scrittura? Il teologo Bruno Forte, in occasione dell’Assemblea ecumenica europea di Graz (Austria) nel 1997, ha proposto un passo biblico. Gli esploratori inviati da Mosè nel paese di Canaan tornarono con un grappolo d’uva talmente grande da dover essere portato su una stanga da due persone (Numeri 13,21-23). Secondo una metafora patristica quel grappolo pendente dal legno è Gesù appeso alla croce e i due portatori sono la Chiesa e Israele che camminano insieme verso la stessa meta. C’è tuttavia una differenza. Israele precede e ha di fronte l’orizzonte aperto. La Chiesa segue e, pur guardando allo stesso orizzonte, lo fa attraverso il grappolo appeso, il legno dell’asta e chi precede. L’appeso è Gesù crocefisso, l’asta è la croce e chi precede è il popolo d’Israele come fonte della Bibbia ebraica. Come tutte le immagini, anche questa metafora presenta qualche problema, e tuttavia fa pensare.
Sul tema del dialogo biblico si è espresso il documento II popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana redatto dalla Pontificia commissione biblica (Città del Vaticano, 2001). Il testo precisa che “la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra” (n. 22). I cristiani non leggono la Bibbia come gli ebrei perché ciò implica l’accettazione di tutti i presupposti del giudaismo che escludono la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Tuttavia possono leggere la Bibbia con gli ebrei perché ciò è fonte di arricchimento della fede cristiana. Già un precedente documento della stessa Commissione (L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993) si era espresso con chiarezza su questo punto affermando che vari procedimenti esegetici ebraici si ritrovano nella Bibbia e nella Tradizione (cf p. 48).
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