mercoledì 17 gennaio 2001

17 gennaio 2001. Tema della Giornata dell'ebraismo. Gruppo interconfessionale Teshuvà. Diocesi di Milano

COSCIENZA DI UNA RADICE….

 

  1. Legame intrinseco Chiesa - Israele

 

“Cristiani ed ebrei hanno nella loro fede radici comuni. A lungo noi cristiani lo abbiamo dimenticato e abbiamo messo in evidenza soltanto le differenze rispetto agli ebrei. Così abbiamo compreso sempre meno le radici della nostra fede cristiana”[1]. La pretesa, infatti, di definire l’identità cristiana in opposizione all’ebraismo, una pretesa saldamente radicata nella mentalità dei cristiani, finisce inevitabilmente per snaturare la stessa fede cristiana. E’ necessario perciò “mostrare ora come l’identità cristiana implica un riferimento, e anche una comunione con il popolo di Israele……La Chiesa non può parlare del popolo ebraico come di una realtà che le sarebbe estranea….La comunione con Israele è inscritta nella stessa identità cristiana”[2].

E’ fondamentale per le Chiese cristiane riscoprire il loro legame intrinseco e vitale con l’ebraismo. Perciò esse hanno la necessità non solo di un dialogo con Israele, ma anzitutto di porsi in ascolto di Israele[3]. E questo non solo per conoscere come Israele si autocomprende, ma per conoscere la loro  stessa identità. Soltanto in questo modo i cristiani possono capire il significato della sequela dell’ebreo Gesù, colui che ha confermato e vissuto la Torà, annunciandola alle genti, e ha interpretato e fatto comprendere il senso della sua vita alla luce delle Scritture di Israele.

 

  1. Rinnovamento dell’alleanza

 

Parlare di due “alleanze” appartiene ad una lunga tradizione ecclesiale. Purtroppo questa tradizione è viziata da un pregiudizio difficile da sradicare secondo il quale “antico” era diventato sinonimo di “invecchiato”, “superato”. Perciò tra le due alleanze si vedeva un contrasto sostanziale, fondato sulla classica contrapposizione tra “legge” e “vangelo”. Così l’alleanza nuova decretava di fatto la fine dell’antica[4].

La riconciliazione di Dio con Israele e le genti, la riconciliazione del mondo con Dio per mezzo del Cristo crocifisso, sul fondamento della quale noi (i cristiani) speriamo la redenzione di Israele, dei popoli e del cosmo, riposa sull’alleanza mai revocata tra Dio e Israele”[5].

Gesù Cristo, pertanto, non rende affatto “antiquata” l’alleanza di Dio con Israele.

“Noi cristiani confessiamo, insieme al Nuovo Testamento, che per la morte e risurrezione di Gesù ci è stato dischiuso il nuovo patto con Dio… Ebbene, questa non è un’altra alleanza, che avrebbe rimpiazzato quella sinaitica. Si tratta dell’unica e medesima alleanza di grazia…L’alleanza è stata stabilita innanzitutto con Israele e solo successivamente, «per mezzo di Gesù Cristo e insieme al suo popolo, vi si è inserita anche la chiesa»….Chi fonda in primo luogo l’esistenza anche della chiesa è dunque non il Nuovo Testamento ma l’Antico. E se la chiesa rinunciasse al messaggio dell’Antico Testamento rinuncerebbe pure a se stessa, quale chiesa della nuova alleanza”[6].

 

  1. Rapporto tra Antico Testamento e Nuovo Testamento

 

Il rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento non è quello tra promessa e adempimento.

Un’interpretazione assai diffusa dell’Antico Testamento parte dal presupposto che esso è soltanto “preistoria” e “preparazione” al Nuovo Testamento.

 “Questa visione tradizionale dell’Antico Testamento, come preparatorio e preliminare, e del Nuovo Testamento, come definitivo compimento, necessita di una seria revisione”[7].

Il movimento cristiano, sorto all’interno del giudaismo, nella sua ricerca di una interpretazione che rendesse comprensibile l’avvenimento sconcertante della morte di Gesù, fece quello che avrebbe fatto ogni ebreo di quel tempo. I discepoli di Gesù per trovare le parole e i simboli di cui avevano bisogno “si rivolsero istintivamente al mondo che essi conoscevano meglio, quello di cui potevano fidarsi e quello in cui poteva essere trovata la volontà di Dio, il mondo dello loro sacre scritture”[8]. Ed, evidentemente, al mondo delle loro sacre scritture così come erano interpretate nei targumim e nei midrashim[9].

“E’ perciò fuorviante dire che la chiesa trovò Gesù nelle scritture, il cosiddetto Antico Testamento. Ciò che essa trovò è che le scritture parlano di Gesù, poiché fu dalle scritture di Israele che essa all’inizio imparò come parlare di lui. Essa imparò fin dall’inizio a parlare di lui nel linguaggio di Israele……Senza quelle scritture e senza la convinzione dei discepoli che una verità (reality) doveva essere trovata in esse, non ci sarebbe stato l’evangelo, e così non ci sarebbe stata né la chiesa né i Vangeli”[10].

 

4.      Il permanere di Israele come fatto storico: un segno da interpretare

 

La storia di Israele non finisce nell’anno 70 d. C. con la distruzione del Secondo Tempio come vorrebbe la tesi che ha portato la tradizione cristiana ad affermare che l’inizio del cristianesimo coincide con la fine dell’ebraismo.

La nostra identità non è fondata sul fatto che abbiamo preso il posto di Israele. Perciò dobbiamo abbandonare l’idea che la chiesa sia il “nuovo Israele”. L’Israele della Bibbia trova la sua continuità nell’Israele vivente[11]. Partendo da questa premessa, dobbiamo allora riconoscere che al popolo ebraico, nella sua concretezza storica, comunque essa si manifesti, appartiene anche il titolo biblico di “popolo di Dio”.

 “Se continuiamo a denominare noi stessi, la cristianità o la chiesa, «popolo di Dio», sottraiamo agli ebrei ciò che appartiene a loro….La chiesa non si colloca in questa continuità immediata con l’Israele biblico, ma rappresenta qualcosa di nuovo. Come si possa formulare questo «nuovo» senza ledere i diritti di Israele è uno degli interrogativi a cui ancora dobbiamo dare risposta”[12].

 

5.      L’ascolto cristiano di Israele

 

Una “teshuvà” delle chiese cristiane nei confronti dell’ebraismo a partire dalle Scritture, che non voglia rischiare di ridursi ad affermazioni di principio, può trovare la sua dimensione di autenticità soltanto nell’ascolto dell’Israele vivente. Un umile e sincero atteggiamento di ascolto esige che anzitutto ci si interroghi su ciò che esso può significare.

Se l’amore per Israele è “un imperativo teologico”[13], esso richiede una risposta concreta e precisamente una risposta che non può esaurirsi nell’essere contro l’antisemitismo o contro l’antigiudaismo, che ne è la matrice religiosa, e neppure nel riconoscimento teorico dell’esistenza di Israele. “Non è sufficiente essere contro chi è contro; bisogna piuttosto essere per ed esserlo in maniera conseguente e programmatica. Bisogna quindi essere per il popolo ebraico, per la sua cultura, per i suoi valori, per la sua ricchezza umana e spirituale, per la sua storia, per la sua straordinaria testimonianza religiosa. E, al fine di essere per, si rende necessario studiare le tradizioni ebraiche, divulgarle, farle conoscere nel loro fascino e nella loro perenne validità: dalle pagine della Torah (che noi cristiani chiamiamo Pentateuco), fino ai profeti, ai salmi, al Talmud, all’esegesi rabbinica, ai racconti chassidici, alla cabbala e a tutte le diverse espressioni della mistica”[14].

Ciò può avvenire solo cercando di ascoltare Israele attraverso un contatto e sotto la guida dei maestri di Israele  di ieri e soprattutto di oggi. “L’incontro con Dio nello studio della Torah è possibile anche per i cristiani. Fa sentire qualcosa della “Gioia della Torah”, di un’esperienza specificamente ebraica”[15]. In questo modo i cristiani sono chiamati a fare “l’esperienza del Sinai”.

Infatti “attraverso lo studio della Torah è l’esperienza del Sinai che si trasmette di generazione in generazione. Fare l’esperienza del bet ha-midrash è fare l’esperienza del Sinai”[16].

Il Sinai parla attraverso Sion. Essi non sono in fondo che uno stesso monte[17]: “Sion colma con la sua presenza il vuoto dell’introvabile Sinai, il Sinai invece dà la sua voce a Sion facendone un centro non solo cosmico ma anche morale. «La presenza è la presenza di Sion, ma la voce è la voce del Sinai».”[18]. La voce del Sinai risuona ancora oggi per chi la sa ascoltare attraverso la testimonianza di Israele, attraverso la voce vivente di un Israele reale[19].

E’ proprio ciò che i cristiani hanno dimenticato in questi duemila anni, pensando che gli ebrei non potessero fare altro che offrire ai cristiani dei testi che essi non erano più in grado di comprendere. Ma ci sono segni che giustificano la speranza in una “teshuvà” dell’atteggiamento delle Chiese cristiane verso Israele. “Il fatto che siano oggi dei cristiani a portare il peso dei testi sacri della tradizione ebraica, testi che non comprendono, ma che vorrebbero capire, e che perciò fanno appello ai maestri di Israele per ricevere la loro parte di Torah, è qualcosa di straordinario”[20]

Se la responsabilità educativa di Israele nei confronti delle nazioni è un aspetto essenziale della sua testimonianza, l’umiltà di chi sa che ha molto da imparare alla scuola di Israele lo porterà “a bussare alla porta delle scuole di Israele, domandando la Torah”[21].

Ai piedi del Sinai non furono presenti le nazioni e perciò la Torah fu accolta solo da Israele. Ma è parte della sua speranza che l’umanità intera scopra il valore e il significato universale del Sinai.

“Se vogliono, tutti possono studiare. Non vi sono ostacoli e barriere per chi voglia fare ritorno al Sinai. Il Sinai è aperto alla famiglia umana”[22].

Ci sono certamente all’interno dell’ebraismo anche posizioni meno aperte sulla possibilità di aprire lo studio della Torah ai gentili. C’è comunque nel Talmud un testo che merita di essere ricordato: “R. Meir usava dire: «Da dove sappiamo che persino un gentile che studi la Torah è come un Sommo Sacerdote? Dal versetto “Voi quindi vi uniformerete ai miei statuti e ai miei giudizi che se l’uomo così farà, vivrà in essi”. Non i sacerdoti, i leviti e gli israeliti, bensì gli uomini sono menzionati: potresti quindi scoprire che persino un gentile che studi la Torah può considerarsi come il Sommo Sacerdote! Ciò si riferisce alle loro sette leggi”[23].

 

6.      La chiesa alla luce del “mistero” di Israele

 

Ma non basta affermare il mistero della permanenza dell’elezione di Israele. Occorre che i cristiani si interroghino sul significato di questa affermazione e ne traggano le conseguenze implicate.

P. Stefani si è espresso più volte in questi ultimi anni sull’importanza che la riflessione teologica non continui a incentrarsi sul rapporto “Israele-Chiesa”, ma ripensi il tema dell’elezione all’interno della polarità “Israele-Genti”.

L’elezione di Israele come “popolo particolare” è da situare in rapporto alle Genti e non alla Chiesa, come comunità dei discepoli di Gesù. Altrimenti, una volta che si è arrivati ad affermare che l’elezione di Israele e quella della Chiesa non si devono più considerare come reciprocamente escludenti, non si riesce poi a capire come possano vicendevolmente integrarsi.

L’elezione di Israele non deve essere considerata come un privilegio da imitare per diventarne partecipi, ma come una grazia e un compito che il Dio di Israele, che è il Dio di tutta la terra, gli affida perché, mediante la sua testimonianza, possa essere realmente riconosciuto come Dio dalle Genti.

La Chiesa non nasce anzitutto dal “no” pronunciato dalla gran parte di Israele, sorge anzitutto dal “sì” ebraico a Cristo.

“Proprio dando un peso prioritario al «sì» di Israele a Gesù Cristo si può comprendere perché la Chiesa si dia all’origine formata costitutivamente da una ecclesia ex circumcisione e da una ecclesia ex gentibus. …Tutto ciò, a propria volta, sta ad indicare una specie di originaria e ineliminabile dipendenza della Chiesa da quanto la precede (questo è appunto il senso pieno da attribuire a quell’ex), da cui deriva la sua radicale impossibilità di annullare in se stessa la polarità Israele-Genti nel momento stesso in cui esprime il mistero dell’unità, in Cristo, del Giudeo e del Greco[24]….In realtà, Israele è scelto fra e per le Genti, mentre la Chiesa è la comunità dei credenti che sono uno in Cristo pur conservando il senso legato alla loro provenienza ex circumcisione ed ex gentibus[25].

Una delle più suggestive ed efficaci icone di questa realtà si trova nel mosaico paleocristiano di S. Sabina in Roma, dove due matrone raffigurano l’una “ l’ecclesia ex circumcisione” e l’altra “l’ecclesia ex gentibus”.

 

Conclusione

 

C. M. Martini concludeva la VI Cattedra dei non credenti (ottobre-novembre 1992) sul tema “Chi è come te tra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio”, citando alcune parole di Martin Buber. In una riunione di missionari cristiani a Stoccarda, egli si chiedeva: “Che cosa abbiamo in comune? Un libro e un’attesa. La vostra attesa è diretta alla seconda venuta del Signore; la nostra, di ebrei, alla venuta che non è stata anticipata dalla prima. Ma possiamo attendere insieme l’avvento dell’Uno, e vi sono momenti in cui possiamo preparare la via davanti a lui, insieme[26].

Questa dimensione comune dell’attesa è sottolineata dalla Chiesa evangelica della Renania che nel 1996 ha inserito nella sintetica “confessione” della Chiesa, che precede l’esposizione del suo “ordinamento ecclesiastico”, questa affermazione: “[La Chiesa evangelica della Renania] testimonia la fedeltà di Dio che resta fedele all’elezione del suo popolo Israele. Con Israele spera in un nuovo cielo ed in una nuova terra”[27].

Nella luce della promessa profetica del pellegrinaggio delle Genti a Sion[28], i cristiani insieme agli ebrei sono al servizio della venuta del regno di Dio e della sua giustizia e perciò sono chiamati a custodire insieme, anche se attraverso vie diverse, la vivente speranza del regno che viene (‘olam ha-ba)[29] e della creazione nuova dei cieli e della terra in cui abiterà la giustizia[30].

 



[1] Sinodo regionale della chiesa evangelico-luterana della Baviera (23 aprile 1997).

[2] M. REMAUD, Israël serviteur de Dieu, CCEJ-Ratisbonne, Jérusalem 1996, 127-128. 139. Su questo tema è certamente utile la lettura di tutto il capitolo intitolato “Identité chrétienne en communion avec Israël”, pp. 127-140.

[3] Cfr. R. FONTANA, “Variations sur le thème de l’écoute chrétienne d’Israël”, in Cahiers Ratisbonne 7 (1999), pp. 72-81.

[4] D. Pollefeyt sostiene che “l’idea di sostituzione è il fondamentale problema teologico delle odierne relazioni ebraico-cristiane. Finché la relazione tra le alleanze ebraica e cristiana è concepita in offensive, e perfino distruttive, variazioni dello schema promessa-compimento, vecchio-nuovo, imperfezione-perfezione, annuncio-realizzazione, e così via, Cristiani ed Ebrei non giungeranno mai ad un vero incontro…” . Cfr. D. POLLEFEYT, “Jews and Christians after Auschwitz: form substitution to interreligious dialogue”, in D. POLLEFEYT (ed.), Jews and Christians: Rivals or Partners for the Kingdom of God? In search of an Alternative for the Theology of Substitution, Louvain 1997, pp. 10-37 (qui pp. 29-30).

Egli continua affermando che un nuovo modo di comprendere la tipologia è indispensabile se non si vuole vanificare l’identità e la concretezza dell’Israele vivente e nello stesso tempo si vuole rendere possibile l’affermazione dell’identità cristiana. Essa si basa sul piano divino della “uguaglianza nella separazione”. Come l’alleanza con Abramo non costituisce la fine, ma “l’intensificazione” dell’alleanza con Noè, così l’alleanza con Gesù non abolisce l’alleanza del Sinai, ma la estende alle genti. “In altre parole, le due alleanze non devono essere in concorrenza. Invece esse devono essere pensate come simultanee (simultaneous). L’alleanza cristiana, presentata in questo modo, non è più il compimento dell’alleanza del Sinai, ma dell’alleanza con Noè”. Pollefeyt chiama questa interpretazione “teologia della simultaneità” (cfr. D. POLLEFEYT, op. cit., pp. 30-31).

[5] H. BANSE, art. cit., p. 94.

[6] E. ZENGER, op. cit., pp. 133-135. La citazione contenuta nel testo appartiene a una proposizione formulata dal già citato Sinodo della chiesa renana del 1980.

[7] P. VAN BUREN, According to the Scriptures. The Origins of the Gospel and of the Church’s Old Testament, W. B. Eerdmans, Grand Rapids, Michigan – Cambridge, U. K. 1998., p. 129.

[8] P. VAN BUREN, op. cit., pp. 23-29, qui p. 25.

[9] Una presentazione chiara e sintetica di queste forme di lettura ebraica della Scrittura si trova in P. CAPELLI, “Ebraismo. Secondo quaderno. La letteratura rabbinica dall’epoca di Gesù alla chiusura del Talmud”, in Sette e Religioni 6 (1996). Cfr. anche A. C. AVRIL - P. LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, Qiqajon, Magnano 1984 (titolo originale: La lecture juive de l’Ecriture, Conférences de la Faculté de Théologie, Lyon 1982); P. DE BENEDETTI, Introduzione al giudaismo, Morcelliana, Brescia 1999; A. MELLO, Ebraismo, Queriniana, Brescia 2000.

[10] P. VAN BUREN, op. cit., p. 65. Egli cita in nota F. W. MARQUARDT, Das christliche Bekenntnis zu Jesus, dem Juden, 2 vols, Kaiser, Munich 1988, specialmente I, pp. 140ss.

[11] Cfr. M. REMAUD, Chrétiens et Juifs entre le passé et l’avenir, Bruxelles 2000, pp. 129-136 (“Sur la pérennité d’Israël ”).

[12] R. RENDTORFF, op. cit., pp. 120-121 e 36.

[13] Cfr. il testo già citato di C. M. MARTINI, in Ambrosius 1 (2000), p. 15.

[14] C. M. MARTINI, Israele, radice santa, Centro Ambrosiano – Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 115.

[15] P. LENHARDT, “Lo studio della Torah anche per i cristiani?”, in Qol 73 (1998), p. 8 (traduzione dal tedesco).

[16] R. FONTANA, Sinai e Sion. Luogo della sapienza agli uomini, Les Éditions CCEJ – Ratisbonne, Jérusalem 1997, p. 183. Questa “opera di alto contenuto…in cui l’autore insiste sull’esperienza del bet ha-midrash con il talmud Torah,…..ha il coraggio di affondare dentro un territorio pressoché negletto: i cristiani alla scuola di Israele” (Dalla presentazione di Tommaso Federici). Meritano di essere segnalati, in particolare, gli ultimi tre capitoli: “Discepoli e maestri”, “Cristiani alla scuola di Israele”, “Sinai e Sion”, 165-216. Si ispirano in modo esplicito a quest’opera due articoli di P. LOMBARDINI: cfr. “Tra il Sinai e il  Sion. Un ingresso nella Bibbia ebraica”, in Qol  85 (2000), pp. 2-7; “Luce delle genti. Sion, la montagna del tempio”, in Qol 86/87 (2000), pp. 8-10.

[17] Cfr. R. FONTANA, "Variations sur le thème de l’écoute chrétienne d’Israël ", in Cahiers Ratisbonne 7 (1999), p. 75.

[18] R. FONTANA, op. cit., p. 203. L’autore afferma esplicitamente di essersi ispirato all’opera di J. D. LEVENSON, Sinai and Zion. An Entry into the Jewish Bible, Minneapolis – Chicago – New York 1984, in particolare pp. 187-217, qui p. 188.

[19] Cfr. R. FONTANA, art. cit., p. 73.

[20] R. FONTANA, art. cit., p. 74.

[21] R. FONTANA, art. cit., p. 73.

[22] Questa affermazione certamente significativa per il suo tono chiaro e deciso è stata fatta da David Hartman. Cfr.  R. FONTANA, “Per una responsabilità educativa. A colloquio con David Hartman”, in Humanitas 3 (1996), p. 415. Il rabbino David Hartman è professore al Dipartimento di Jewish Thought and Philosophy alla Hebrew University of Jerusalem.

[23] TbSanhedrin 57a.

[24] Cfr. Gal 3,26-29.

[25] P. STEFANI, Luce per le Genti- Prospettive messianiche ebraiche e fede cristiana, Paoline, Milano 1999, p. 239.

[26] AA.VV., Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, Garzanti, Milano 1993, pp. 113-127 (il testo citato si trova a p. 127). Questa relazione conclusiva è stata pubblicata anche in C. M. MARTINI, Israele, radice santa, Centro Ambrosiano – Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 85-108.

[27] Cfr. D. GARRONE, “Le Chiese cristiane e il popolo ebraico” , in Ambrosius 1 (2000), p. 21.

[28] Cfr. Is 2,2-5.

[29] MENACHEM M. BROD, I giorni del Messia. Redenzione e avvento messianico nelle fonti della tradizione ebraica, Ed. Mamash, Milano 1997 (titolo originale: Yemòt Hamashìach, Chabad Youth Organization of Israel 1992).

[30] Cfr. 2 Pt 3,13.

 

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