mercoledì 22 novembre 2023

Le origini storiche della preghiera ebraica

 

Le origini della liturgia ebraica sono oscure (Enciclopedia Judaica).

Nella Torà non c’è nessuna preghiera pubblica (tefillà tzibbur) e poche preghiere individuali (tefillot jachid): Anna (una donna), Mosè per Miriam e Shlomò (richiesta di sapienza). I Salmi sono in realtà musiche parolate o parole musicate.

All’epoca del tempio la liturgia pubblica erano i sacrifici: fuori dal tempio si leggeva la Torà e dentro si recitava lo Shemà Israel (comunque tre brani).

Hirsch traduce tefillà con introspezione come verità su se stessi. Altro termine è avodà che significa lavoro o servizio e indica anche il culto reso a Dio durante tutta la vita (non ci sono luoghi o tempi sacri). La preghiera è sempre questione di cuore (il più intimo di se stessi).

Accanto al tempio c’era la sinagoga (bet ha-kneset) e il terzo pilastro era il digiuno. Gruppi familiari si organizzavano per portare gli animali al tempio per distribuire le proteine al popolo (cohen levi e poveri). Quelli che rimanevano a casa si univano a loro in preghiera nelle ore dei sacrifici. Ciò avveniva 3 o 4 volte al giorno: mattino, pomeriggio e chiusura delle porte del tempio, oltre un sacrificio aggiuntivo in occasione delle feste. Tuttavia la preghiera non sostituiva i sacrifici e oggi il lavaggio delle mani in sinagoga e in moschea è ciò che rimane del tempio.

Nel tempio ci si prostrava alla presenza divina e la guida spettava ai cohen. La preghiera più importante oggi è l’Amidà o 18 benedizioni che si recita in piedi. La guida non spetta ai cohen ma a chiunque ne sia capace. Il decalogo era un “pezzo forte” nel tempio ma oggi rimane solo un simbolo (spesso nelle facciate) delle sinagoghe. Anche il tema templare dell’alleanza (particolare) ha lasciato il posto a quello (universale) della signoria di Dio (Avinu Malkenu).

Da leggere: Schalom Ben Chorin, Il giudaismo in preghiera. La liturgia della sinagoga, Paoline 1988

lunedì 6 novembre 2023

Il resto d'Israele

 

Oggi il diritto canonico per la chiesa cattolica, la halakà per l’ebraismo, le costituzioni per le chiese evangeliche, non hanno alcun valore al di fuori delle comunità nelle quali vigono. Assai diversa era la situazione nell’antico vicino oriente, come del resto anche nel mondo classico, dove il diritto è sempre sacro e un dualismo tra chiesa e stato non era concepibile. Nel panorama di queste società estremamente conservatrici, Israele costituiva un’eccezione. Alcuni profeti esplicitano la separazione tra popolo credente e comunità etnico-politica. Questa distinzione comincia a prendere forma con il concetto di residuo eletto.

I profeti si occupano del futuro, non solo quello prossimo, ma anche quello remoto. Se la prima tappa della loro predicazione è il giudizio sul comportamento del popolo, la seconda tappa è spesso l’annuncio dell’azione divina gratuita (grazia). Alcuni profeti limitano questa grazia a un residuo eletto che si è convertito dopo essere scampato al giudizio. Per altri la situazione è talmente deteriorata che occorre un intervento divino per creare nel popolo un cuore nuovo e uno spirito nuovo (Ezechiele 36-37) o per stipulare una nuova alleanza (Geremia 31,31). Si badi bene: questi avvenimenti avranno luogo nella storia, non nel mito, e in quest’ottica l’apocalittica è solo un fenomeno involutivo.

Il profeta Isaia era sposato con una donna che portava il titolo di nevijà (profetessa) e che gli partorì due figli. Al primogenito misero nome (Isaia7,3): Shear-Jashuv (un residuo ritorna). Come per altri profeti (Osea) siamo in presenza di un nome simbolico che annunzia la sorte del popolo: giudizio e distruzione per gli empi e conversione e salvezza per il residuo eletto. Quello di un resto è un elemento tra i più antichi della predicazione di Isaia. Dopo la caduta del regno del nord, Isaia (a partire dal cap. 2) insiste sull’elezione di Sion, convinto che la tribù di Giuda è il resto d’Israele. Alla fine del suo ministero, una trentina d’anni dopo la nascita del suo primo figlio, Gerusalemme gli appare di fatto come il residuo eletto. Ma a questo punto un dubbio s’insinua in lui. Il residuo eletto potrebbe anche essere qualcosa di diverso dal popolo in senso entico-politico: potrebbero essere cioè coloro che credono ancora nelle promesse divine per il popolo d’Israele e in questa linea s’inserisce la speranza messianica.

Anche i profeti Michea, Amos (5,18) e Sofonia, conoscono l’oracolo e la nozione di residuo eletto. Oggetto degli strali di Michea sono i ricchi oppressori, i sacerdoti e i profeti che esercitano indegnamente il loro ministero, il sincretismo della religione di stato e la falsa sicurezza di aver fatto il proprio dovere. Alla base dell’inno medioevale dies irae, dies illa, contenuto nella liturgia cattolica, c’è il giorno di JHWH (1,7.14-18). Michea si rivolge a Gerusalemme e alla sua classe dirigente (3,1-13), che saranno oggetto di un prossimo giudizio, per mano delle nazioni gentili come strumento divino. Nel terribile giorno del giudizio - il giorno di JHWH - scamperà solo un resto di umili, mentre gli orgogliosi periranno.

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

  LE BEATITUDINI (PREMESSA ALLE SUPERTESI) Il rotolo di Qumran 4Q525 2 II, 1-6 ha 9 beatitudini, di cui solo le ultime 5 sono conserva...