È un mercoledì, il ventiquattro di maggio. Sono le sei e quarantacinque minuti di una mattinata calda. La mia Meriva azzurro metallizzato segna venticinque gradi centigradi. Tre baci e la solita raccomandazione: devo prestare attenzione. L’orario è quello delle mattine lavorative. Saluto come sempre il vicino che porta a spasso i suoi cani. Ma questa mattina non andrò in ufficio. L’impiegata della Saccarta sembra intuirlo: si ferma davanti la scuola elementare e mi lascia passare. Una bastardino randagio costeggia la recinzione dell’oratorio e annusa la terra. Il Monte Rosa mi saluta carico di neve primaverile alquanto insolita.
Il traffico scorre. Le folle viaggiano in senso contrario al mio. Verso Ninive o Babilonia, non so. Un nembo stiracchiato da un vento non identificato copre il Monte Serrada come un coperchio la sua pentola. Il sole fa capolino da quei lembi come dal mare all’orizzonte. Non ho neppure bisogno degli occhiali da sole, per quanto è tenue la sua luce.
Scrivo queste note seduto sul baule. Sono al parcheggio della Fonte Gajum e sono appena le sette e trenta. Mi accoglie una leggera brezza, il canto dei fringuelli di monte e lo scroscio del torrente che si arrovella. Sono diciotto i gradi quando infodero il binocolo e caldo i miei fidi scarponi della Tecnica. Collaudo il maglioncino nuovo della Great Escape e inauguro questo quadernetto ecologico ricoperto con gli scarti della lavorazione del cuoio. L’ho acquistato all’ombra delle torri della città dotta rossa e grassa. Porterò con me in questa avventura i bastoni telescopici dell’Odissey, così da sentirmi un po’ Ulisse che si perde nel cercare la strada di casa. La mia casa, dentro me stesso.
Porto sulle spalle un po’ di appennino con la maglia dei Camosci del Parco nazionale di Lazio Abruzzo e Molise. Penso con gratitudine alle guide che mi hanno fatto scoprire la Camosciara in una notte stellata di luna piena. Così potrò unire in me Alpi e Appennini e l’Italia intera. Un piccolo pettirosso mi si approssima. Mi cinguetta che è l’ora di lasciare la penna e iniziare il cammino. Sono le otto quasi. Sono pronto. Vado.
Parto da quattrocentocinquanta metri sopra il livello del mare. Osservo una stratificazione sottomarina scivolata su un fianco e rimasta a gambe all’aria. Alcuni milioni di anni fa sarei stato un pesce. Ecco poi una maiolica dolomitica. Che ci fanno poi qui le serpentiniti stratificate della Valmalenco che si tagliano a fette come il Bitto? Eppure sono qui da centinaia di milioni di anni. Forse anch’io? Sono il risultato di un sedimento di sabbia e ghiaia stratificate? Oppure sono un masso erratico che ha trovato il suolo dove posarsi? Il sole spunta dal Ceppo dall’Angua e mi dice di lasciare questi pensieri e riprendere il cammino. Far tacere la mente e ascoltare il corpo.
Quarzi opali e selci policrome mi indicano la salita al Cornizzolo. L’acqua del torrente Ravella gorgoglia sotto i miei piedi. Ribolle come se uscisse dal cratere di un vulcano: quello che c’è dentro di me mentre cammino. Raccolgo un ciottolo di bianchissima calcite, prima di incocciare nella nerissima morte di un topolino preso a morsi e lasciato sul sentiero. I suoi occhi d’ebano sono capocchie di spillo.
Un’edera poderosa ha avvolto nelle sue mefistofeliche spire un albero ormai indefinito per la decomposizione e ora giace sciolta dal mortale abbraccio a sbarrarmi il sentiero. I canti degli uccelli si intrecciano come gli sciami di formiche già al lavoro da ore. Odo anche il raglio dell’asino della Terz’alpe che mi fa riprendere ancora una volta il cammino interrotto. Mi dice che mi aspetta per pranzo.
Sul Cornizzolo tira vento e veli di nubi promettono scarno sole. Potevano mancare i grappoli gialli del Maggiociondolo nell’ultimo mese della primavera dell’emisfero boreale? Dentro di me si è fatto silenzio, ma resta ancora un poco d’ansia di fallire il piano del percorso stabilito. Quasi non mi accorgo del tappeto ronzante di fiori bianchi ricoperto da uno sciame assetato di api. Una per poco fallisce l’imbocco della galleria del mio palato. Mi ricorda che in effetti la fame comincia a farsi sentire.
Quota circa mille. Alle dieci e trenta dovrei essere al Sasso Malascarpa. Ora sono al Calcare di Zu. Dopo i coralli caldi della barriera, la foresta si fa rossa di resti di lumaconi ammonitici. Scendo alla Colma e risalgo alla Bocchetta di Luèra alla ricerca del terzo Corno. Il quarto Corno del Ratt lo lascio per il prossimo anno. Il Corno orientale, come ogni cima qua attorno, mi attende da sempre con i suoi maestosi panorami che racchiudono tutte le montagne che ho salito e mi possiedono e che adoro.
La salita dalla Bocchetta è ripida e ridiscenderla poi richiede molta attenzione e poca fame. Io ne ho molta, ma ho deciso di pranzare alla Terz’Alpe, perché l’asino mi attende. Un cuculo mi accompagna nella discesa, mi segue persino, mi ripete il suo cucù. Che vorrà dirmi? Raccolgo una saponetta gialla di marne argillose. Il sole fa brillare la lamelle di mica nel composto grigio e verdognolo tipico delle sabbie depositate dai fiumi sulle terre emerse. I ghiacci si stavano già ritirando. Non più milioni di anni, ma solo millenni che ora sto calpestando.
Alla Terz’alpe scopro che Miro significa nato in modo mirabile e che mirabilmente il santo faceva piovere e camminava sulle acque persino. C’è ancora la spelonca in cui si ritirò come un eremita e questo è il miracolo più grande. Come strabiliante è quel piatto che mi si squaderna davanti e che mi darà la forza di riprendere il cammino e tornare da dove ero partito.
Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
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