martedì 19 febbraio 2019

Note profetiche

La bibbia ebraica ha molti nomi. Uno di questi è miqrà, dal verbo qaràh (proclamare, chiamare), perché è una lettura da fare a voce alta. Un altro nome è tanàk, acronimo di toràh (pentateuco) nevi’ìm (profeti) e ketuvìm (scritti), perché è suddivisa in tre sezioni. Un altro ancora è Torà, dal verbo jarà (indicare, insegnare), perché contiene la parola rivolta da Dio all'umanità.

Profeta in ebraico si dice navì. Il plurale è nevi’ìm. Quest’ultimo è anche il nome della sezione centrale della miqràh. Questa sezione, a sua volta, si suddivide in due sottosezioni: nevi'ìm rishonìm (profeti anteriori o libri storici) e nevi'ìm acharonìm (profeti posteriori o profeti veri e propri).

Le tre sezioni della miqrà hanno importanza decrescente. La toràh è la sezione più letta in quanto è la sezione più importante. In questa sezione il termine navì (profeta) e il suo plurale (nevi'ìm) compaiono per sette volte. Sembrano descrivere sette caratteristiche dei profeti veri e propri che caratterizzeranno la seconda sezione (nevi'ìm) e in particolare la seconda sottosezione (nevi'ìm acharonìm).

1. Il primo che viene chiamato profeta è Abramo (Gen 20,7). Il primo ad ascoltare questa parola è il re di Gherar. Abimelech, ignaro, ha preso per sé Sara. Ma, venuto a sapere che Sara è la moglie di Abramo, la vuole restituire. Si sente meritevole di morte e invita Abramo a pregare per la sua salvezza. Qui il profeta è un intercessore.

2. La seconda ricorrenza del termine profeta è riferita ad Aronne (Es 7,1). Il popolo d’Israele è schiavo in Egitto. Dio allora manda Mosè a parlare con il Faraone. Chiede all'oppressore la liberazione degli oppressi. Mosè, tuttavia, è balbuziente e necessita di un aiuto. Questo è il ruolo di Aronne. Qui il profeta è un portavoce che trasmette un messaggio.


3. La terza persona chiamata profetessa, al femminile, è Miriam
(Es 15,20). Israele, liberato dalla schiavitù d'Egitto, ha appena attraversato il mar Rosso. Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, guida le danze delle donne ritmate dai tamburelli. Cantano la lode a Dio per uno scampato pericolo. Qui la profezia è teatro: musica, canto e danza. La parola si fa gestualità simbolica. Più tardi, al tempo del re Davide, i profeti suoneranno cetre, arpe e cembali (1 Cr 25,1).



4. La quarta ricorrenza del termine profeta è plurale. Il popolo d'Israele sta attraversando il deserto per trovare la terra promessa. Nel deserto sgorga acqua dalla terra e piove pane dal cielo. (In natura solitamente accade il contrario). Ma non basta. La gente chiede della carne. Tra la manna e le quaglie Mosè perde un po’ del suo spirito a vantaggio di settanta anziani che si mettono a profetizzare (Nm 11,25). Qui la profezia è dono per tutti. E tuttavia è momentanea. Quegli anziani infatti in seguito non profetizzarono più.


5. Poco dopo a profetizzare sono Eldad e Medad che, anziché recarsi al santuario come tutti gli altri, restano tra le tende nell’accampamento. Ciò nonostante lo spirito si posa su di loro. Un giovane, scandalizzato, corre a informare Mosè. Nessuna gelosia, è la sua risposta, nessun divieto (Nm 11, 26-29). Anzi, fossero tutti profeti, nel popolo d’Israele.


6. La sesta persona chiamata profeta è (finalmente) Mosè. Aronne e Miriam disapprovano il fratello perché ha sposato una donna straniera. Ma forse il motivo è un altro. I profeti hanno visioni e sogni. Mosè invece riceve parole da sveglio (Nm 12,6). Secondo un detto rabbinico Mosè vede attraverso uno specchio mentre gli altri profeti attraverso nove specchi. Così Mosè intercede per Miriam (Nm 12,13), per Aronne (Dt 9,20), per il popolo in occasione del vitello d'oro (Es 32,11) e persino per gli egiziani colpiti dalle piaghe. Per questo e per la sua umiltà Mosè diviene il più grande tra i profeti.


Sia consentita una digressione. Yitzchàq ben Shelomòh Israeli è un medico e filosofo neoplatonico egiziano vissuto nel X-XI secolo. Sostiene che l'anima è imprigionata nel rozzo involucro corporeo. L'ascensione verso la sapienza può avvenire in molti modi. Attraverso la voce creata (qol), lo spirito (rùach), le visioni (chazòn) e, al massimo livello di ispirazione, mediante il discorso (dibbùr) faccia a faccia (panìm le panìm) di Mosè con Dio.


7. Il settimo profeta non ha (ancora) un nome. Verranno falsi profeti e sognatori. Faranno segni e prodigi. Verranno per mettere alla prova il popolo. Non porteranno la parola del Dio d'Israle e per questo le loro parole non dovranno essere accolte (Dt 13,6). Verrà anche un vero profeta pari a Mosè. Ascolterà la parola del Dio d’Israele e la pronuncerà con le sue labbra. Per questo le sue parole dovranno essere accolte (Dt 18,18).

In sintesi il profeta è un portavoce della parola di Dio. Sa tradurre il suo messaggio in una lingua accessibile a tutti. Sa intercedere presso Dio per ogni singola persona. Tutti possono essere profeti in una fase della loro vita. Ma non ci si può fregiare a vita del titolo di profeta. Il profeta trasmette umilmente la parola di Dio. Il profeta non ha la presunzione di esserlo.

Abraham Geiger è un rabbino tedesco vissuto nel XIX secolo. Fu tra i promotori della Riforma ebraica (nella sua tesi di dottorato si occupò delle fonti ebaiche del Corano). Egli considerava l'insegnamento profetico come la massima sintesi etica e spirituale dell'ebraismo. Queste sette note della Torà sembrano suonare proprio questa stessa sinfonia.

giovedì 14 febbraio 2019

Corni e bocchette

È un mercoledì, il ventiquattro di maggio. Sono le sei e quarantacinque minuti di una mattinata calda. La mia Meriva azzurro metallizzato segna venticinque gradi centigradi. Tre baci e la solita raccomandazione: devo prestare attenzione. L’orario è quello delle mattine lavorative. Saluto come sempre il vicino che porta a spasso i suoi cani. Ma questa mattina non andrò in ufficio. L’impiegata della Saccarta sembra intuirlo: si ferma davanti la scuola elementare e mi lascia passare. Una bastardino randagio costeggia la recinzione dell’oratorio e annusa la terra. Il Monte Rosa mi saluta carico di neve primaverile alquanto insolita.

Il traffico scorre. Le folle viaggiano in senso contrario al mio. Verso Ninive o Babilonia, non so. Un nembo stiracchiato da un vento non identificato copre il Monte Serrada come un coperchio la sua pentola. Il sole fa capolino da quei lembi come dal mare all’orizzonte. Non ho neppure bisogno degli occhiali da sole, per quanto è tenue la sua luce.

Scrivo queste note seduto sul baule. Sono al parcheggio della Fonte Gajum e sono appena le sette e trenta. Mi accoglie una leggera brezza, il canto dei fringuelli di monte e lo scroscio del torrente che si arrovella. Sono diciotto i gradi quando infodero il binocolo e caldo i miei fidi scarponi della Tecnica. Collaudo il maglioncino nuovo della Great Escape e inauguro questo quadernetto ecologico ricoperto con gli scarti della lavorazione del cuoio. L’ho acquistato all’ombra delle torri della città dotta rossa e grassa. Porterò con me in questa avventura i bastoni telescopici dell’Odissey, così da sentirmi un po’ Ulisse che si perde nel cercare la strada di casa. La mia casa, dentro me stesso.

Porto sulle spalle un po’ di appennino con la maglia dei Camosci del Parco nazionale di Lazio Abruzzo e Molise. Penso con gratitudine alle guide che mi hanno fatto scoprire la Camosciara in una notte stellata di luna piena. Così potrò unire in me Alpi e Appennini e l’Italia intera. Un piccolo pettirosso mi si approssima. Mi cinguetta che è l’ora di lasciare la penna e iniziare il cammino. Sono le otto quasi. Sono pronto. Vado.

Parto da quattrocentocinquanta metri sopra il livello del mare. Osservo una stratificazione sottomarina scivolata su un fianco e rimasta a gambe all’aria. Alcuni milioni di anni fa sarei stato un pesce. Ecco poi una maiolica dolomitica. Che ci fanno poi qui le serpentiniti stratificate della Valmalenco che si tagliano a fette come il Bitto? Eppure sono qui da centinaia di milioni di anni. Forse anch’io? Sono il risultato di un sedimento di sabbia e ghiaia stratificate? Oppure sono un masso erratico che ha trovato il suolo dove posarsi? Il sole spunta dal Ceppo dall’Angua e mi dice di lasciare questi pensieri e riprendere il cammino. Far tacere la mente e ascoltare il corpo.


Quarzi opali e selci policrome mi indicano la salita al Cornizzolo. L’acqua del torrente Ravella gorgoglia sotto i miei piedi. Ribolle come se uscisse dal cratere di un vulcano: quello che c’è dentro di me mentre cammino. Raccolgo un ciottolo di bianchissima calcite, prima di incocciare nella nerissima morte di un topolino preso a morsi e lasciato sul sentiero. I suoi occhi d’ebano sono capocchie di spillo.

Un’edera poderosa ha avvolto nelle sue mefistofeliche spire un albero ormai indefinito per la decomposizione e ora giace sciolta dal mortale abbraccio a sbarrarmi il sentiero. I canti degli uccelli si intrecciano come gli sciami di formiche già al lavoro da ore. Odo anche il raglio dell’asino della Terz’alpe che mi fa riprendere ancora una volta il cammino interrotto. Mi dice che mi aspetta per pranzo.

Sul Cornizzolo tira vento e veli di nubi promettono scarno sole. Potevano mancare i grappoli gialli del Maggiociondolo nell’ultimo mese della primavera dell’emisfero boreale? Dentro di me si è fatto silenzio, ma resta ancora un poco d’ansia di fallire il piano del percorso stabilito. Quasi non mi accorgo del tappeto ronzante di fiori bianchi ricoperto da uno sciame assetato di api. Una per poco fallisce l’imbocco della galleria del mio palato. Mi ricorda che in effetti la fame comincia a farsi sentire.

Quota circa mille. Alle dieci e trenta dovrei essere al Sasso Malascarpa. Ora sono al Calcare di Zu. Dopo i coralli caldi della barriera, la foresta si fa rossa di resti di lumaconi ammonitici. Scendo alla Colma e risalgo alla Bocchetta di Luèra alla ricerca del terzo Corno. Il quarto Corno del Ratt lo lascio per il prossimo anno. Il Corno orientale, come ogni cima qua attorno, mi attende da sempre con i suoi maestosi panorami che racchiudono tutte le montagne che ho salito e mi possiedono e che adoro.

La salita dalla Bocchetta è ripida e ridiscenderla poi richiede molta attenzione e poca fame. Io ne ho molta, ma ho deciso di pranzare alla Terz’Alpe, perché l’asino mi attende. Un cuculo mi accompagna nella discesa, mi segue persino, mi ripete il suo cucù. Che vorrà dirmi? Raccolgo una saponetta gialla di marne argillose. Il sole fa brillare la lamelle di mica nel composto grigio e verdognolo tipico delle sabbie depositate dai fiumi sulle terre emerse. I ghiacci si stavano già ritirando. Non più milioni di anni, ma solo millenni che ora sto calpestando.

Alla Terz’alpe scopro che Miro significa nato in modo mirabile e che mirabilmente il santo faceva piovere e camminava sulle acque persino. C’è ancora la spelonca in cui si ritirò come un eremita e questo è il miracolo più grande. Come strabiliante è quel piatto che mi si squaderna davanti e che mi darà la forza di riprendere il cammino e tornare da dove ero partito.

lunedì 4 febbraio 2019

Dopo i profeti (L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz) di André Neher

Dio è un cacciatore e la sua arma è la parola. I profeti sono braccati da Dio come selvaggina. Per questo spesso fuggono. Cercano riparo lontano dalla parola: nel silenzio.

Dio tuttavia non vuole mangiare il profeta e neppure ucciderlo. Gli basta catturarlo. Il profeta diviene così un prigioniero. Nessun essere umano più di lui somiglia a un carcerato.
Il profeta è un uomo irrequieto. Nel suo intimo avviene un combattimento. Nel suo corpo libertà e limite lottano tra loro. Dio ha bisogno del profeta, per questo lo imprigiona, ma il profeta può sfuggire a Dio.

Dio e il profeta si parlano. Dio chiama e il profeta risponde. La replica del profeta, tuttavia, non è per forza un’adesione. “Ho una lingua troppo pesante” dubita Mosè. Elia fugge nel deserto. “Non sono che un ragazzo” tergiversa Geremia.

Basta una parola o persino un grido (come in Geremia appunto). Collera e rivolta in qualche modo mantengono il legame. Dio le sa leggere e vede chiaro.
Ma qualche volta il profeta non risponde. Il silenzio dissocia. Giona ed Ezechiele rifiutano di esprimersi. Non più esseri umani, ma pietre mute, cocci insensibili e inerti.

Giona fugge. Dio gli indica l’Oriente ma lui compie un mezzo giro e volta le spalle a Dio. Poi si imbarca verso i confini dell’Occidente. Allora Dio gli manda un messaggero potente: la tempesta. Posto di fronte al pericolo di morte, il profeta si rivolgerà a Dio?

Nemmeno per sogno. Giona scende nella stiva della nave e si addormenta profondamente. “Prendetemi e gettatemi in mare” dirà ai marinai. La storia è nota (Pinocchio ce la rammenta). Un pesce enorme lo inghiotte e lo vomita sulla spiaggia. Allora Giona annuncia a Ninive la parola di Dio. E per questo troverà posto tra i profeti minori.




Ezechiele invece no, lui non fugge. Viene colmato di visioni come nessun altro profeta. Ma nessun suono esce dalla sua bocca. Solo un cafone - dice il midrash - reagisce così.

In realtà Ezechiele è lacerato, scisso. Il suo intimo ribolle, il suo corpo è apatico e la bocca è rigida. Finché un vento lo travolge. Da una valle solitaria viene scaraventato a Tel Aviv in mezzo agli esiliati.
Ma Ezechiele si sottrae alla sua responsabilità. Gli astri sono silenziosi, ma almeno osservano la loro legge. Ezechiele rifiuta di accettare la sua. Si pone fuori dalla legge. Ma troverà posto tra i profeti maggiori. Perché?

A volte il confronto tra Dio e l’uomo diviene impossibile. Allora Dio la fa sua questa defezione. Diventa muto. Il luogo senza umanità diviene anche un luogo senza Dio.

Ma proprio in questa dialettica negativa, nel silenzio e nell'assenza, Dio va incontro agli esseri umani. Li incontra nella loro libertà silenziosa, nel sussulto di un istante, nell’energia che vibra.

Chi è (oggi) profeta? Colui che vede la gente com'è e sa vedere come invece dovrebbe essere. Il profeta è specchio del suo tempo eppure vive fuori dal suo tempo. Sa percepire drammi senza tempo negli episodi comuni della vita di ogni giorno. Grazie a lui l'oggi diventa un tempo biblico.

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

  LE BEATITUDINI (PREMESSA ALLE SUPERTESI) Il rotolo di Qumran 4Q525 2 II, 1-6 ha 9 beatitudini, di cui solo le ultime 5 sono conserva...