giovedì 22 marzo 2018

Shoah: un filtro obbligato

Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta si concentrarono molte delle mie letture sulla Shoàh. Dovevo in qualche modo ovviare a una lacuna che nessuno aveva colmato. Misuro la distanza tra la mia adolescenza e quella delle mie figlie, tra le molte altre cose, anche sul tema della memoria. La scuola professionale che frequentai non mi fornì conoscenze e strumenti per valutare gli esiti dell'ideologia ariana. Così dovetti recuperare in proprio, attraverso numerose letture, l'orrore dei campi di concentramento e di sterminio fascisti e nazisti. Non mi sono risparmiato nessuna delle tre 'stagioni' o 'generazioni' narrative della - per dirla all'americana - 'Holocaust Literature'.

Della prima, quella della scrittura come pura testimonianza, ricordo l'edizione Giuntina degli anni Ottanta de 'La notte' del romeno Elie(zer) Wiesel nella traduzione di Daniel Vogelmann. Non è stata, come lo fu per molti, una lettura scolastica un po' forzata la mia esperienza di 'Se questo è un uomo' del chimico partigiano torinese Primo (Michele) Levi. Dei 'lamed-waw', i trentasei pii che sostengono il mondo, lessi per la prima volta in un'edizione Garzanti degli anni Settanta de 'L'ultimo dei giusti' del francese di origini polacche André Schwartz-Bart. Costoro si affidarono alla pagina 'per non dimenticare' e per gridare con tutto il fiato possibile 'mai più Auschwitz'.




Della seconda generazione, quella della memoria di riflessione, ricordo 'Sopravvivere e altri saggi' e 'La fortezza vuota' - se non erro Garzanti l'uno e Feltrinelli l'altro - dello psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim. E poi ancora tutto - o quasi tutto - quel che 'di' e 'su' Primo Levi riuscii a trovare: 'La tregua' e 'Il sistema periodico', 'Se non ora, quando?' e le poesie di 'Ad ora incerta', 'I sommersi e i salvati' e le 'Conversazioni e interviste 1963-1987'. Questi due autori si tormentavano intorno alla domanda 'come è stato possibile Auschwitz?'. Per questo Bettelheim rischiò la professione e Levi mise in gioco la propria vita.

Della terza prova di scrittura, che si pone l'ineludibile e cieca interrogazione: si può 'uscire da Auschwitz?', ricordo il racconto lungo 'L'amico ritrovato' dell'avvocato tedesco (Man)Fred Uhlman in un'edizione Feltrinelli degli anni Ottanta. O ancora, dello scrittore israeliano David Grossman, i romanzi 'Il sorriso dell'agnello' e 'Vedi alla voce: amore'. In quest'ultimo a parlare della Shoah è un bambino israeliano di prima generazione. Nella terza 'stagione' si muovevano individui che non avevano vissuto in prima persona Auschwitz ma che ugualmente non sembravano capaci di varcarne i cancelli. Per tutti loro, nonché per me, la Shoàh è un filtro obbligato.

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