Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta si concentrarono molte delle mie letture sulla Shoàh. Dovevo in qualche modo ovviare a una lacuna che nessuno aveva colmato. Misuro la distanza tra la mia adolescenza e quella delle mie figlie, tra le molte altre cose, anche sul tema della memoria. La scuola professionale che frequentai non mi fornì conoscenze e strumenti per valutare gli esiti dell'ideologia ariana. Così dovetti recuperare in proprio, attraverso numerose letture, l'orrore dei campi di concentramento e di sterminio fascisti e nazisti. Non mi sono risparmiato nessuna delle tre 'stagioni' o 'generazioni' narrative della - per dirla all'americana - 'Holocaust Literature'.
Della prima, quella della scrittura come pura testimonianza, ricordo l'edizione Giuntina degli anni Ottanta de 'La notte' del romeno Elie(zer) Wiesel nella traduzione di Daniel Vogelmann. Non è stata, come lo fu per molti, una lettura scolastica un po' forzata la mia esperienza di 'Se questo è un uomo' del chimico partigiano torinese Primo (Michele) Levi. Dei 'lamed-waw', i trentasei pii che sostengono il mondo, lessi per la prima volta in un'edizione Garzanti degli anni Settanta de 'L'ultimo dei giusti' del francese di origini polacche André Schwartz-Bart. Costoro si affidarono alla pagina 'per non dimenticare' e per gridare con tutto il fiato possibile 'mai più Auschwitz'.
Della seconda generazione, quella della memoria di riflessione, ricordo 'Sopravvivere e altri saggi' e 'La fortezza vuota' - se non erro Garzanti l'uno e Feltrinelli l'altro - dello psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim. E poi ancora tutto - o quasi tutto - quel che 'di' e 'su' Primo Levi riuscii a trovare: 'La tregua' e 'Il sistema periodico', 'Se non ora, quando?' e le poesie di 'Ad ora incerta', 'I sommersi e i salvati' e le 'Conversazioni e interviste 1963-1987'. Questi due autori si tormentavano intorno alla domanda 'come è stato possibile Auschwitz?'. Per questo Bettelheim rischiò la professione e Levi mise in gioco la propria vita.
Della terza prova di scrittura, che si pone l'ineludibile e cieca interrogazione: si può 'uscire da Auschwitz?', ricordo il racconto lungo 'L'amico ritrovato' dell'avvocato tedesco (Man)Fred Uhlman in un'edizione Feltrinelli degli anni Ottanta. O ancora, dello scrittore israeliano David Grossman, i romanzi 'Il sorriso dell'agnello' e 'Vedi alla voce: amore'. In quest'ultimo a parlare della Shoah è un bambino israeliano di prima generazione. Nella terza 'stagione' si muovevano individui che non avevano vissuto in prima persona Auschwitz ma che ugualmente non sembravano capaci di varcarne i cancelli. Per tutti loro, nonché per me, la Shoàh è un filtro obbligato.
Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
giovedì 22 marzo 2018
giovedì 15 marzo 2018
Un marrano
In questi giorni si svolge, nella chiesa di Milano, un sinodo minore sulla questione degli stranieri. Si tratta di aggiornare un capitolo specifico - la "pastorale degli esteri" - di un sinodo (maggiore) indetto più di vent'anni fa. Il 47° "convenire e incontrarsi" dei fedeli ambrosiani era stato voluto dall'arcivescovo Carlo Maria Martini.
Circa 25 anni fa, dunque, scrissi un testo per la consultazione sinodale. Un contributo personale, nient'affatto comunitario, da solitario eremita. Il consiglio parrocchiale di Copreno aveva infatti deciso di lavorare solo su cinque delle diciassette aree tematiche proposte. Quella del "dialogo interconfessionale e interreligioso" era stata esclusa. Mentre la chiesa di Ambrogio si interrogava sulla sua vita e sulla sua missione, la mia comunità cristiana escludeva dal suo orizzonte le altre chiese e le altre religioni. Una scelta che mi sembrò quantomeno inopportuna.
Sono cresciuto in umanità anche grazie ad alcune iniziative di Martini: l'assemblea di Sichem, la Scuola della Parola, la Cattedra del dialogo. Così, sulla base dell'esperienza - gli incontri con ebrei a Camaldoli, l'amicizia con un cristiano valdese, il lavoro con un immigrato libanese di fede islamica - riportai le mie opinioni e qualche sensazione. Mi invitarono in un gruppo di dialogo formato da cattolici, evangelici ed ebrei. Erano anni di fermenti e di entusiasmi.
Leggo oggi - me l'ero dimenticato - che mi qualificai come marrano. Uno di quei "porci" ebrei che nella Spagna cattolica finsero di essere cristiani per evitare l'espulsione e altri guai minori. Studiavo la Bibbia in una facoltà teologica, l'ebraico presso le religiose di Nostra Signora di Sion, la gestione dei conflitti nel villaggio di Nevé Shalom / Wahat as Salaam, dove convivono cittadini israeliani delle tre religioni abramiche. Ma in quegli anni la matrice ebraica della fede cristiana faceva problema. Per questo mi definii provocatoriamente un marrano, un uomo che si sentiva un giorno un poco ebreo e l'altro un poco cristiano.
Circa 25 anni fa, dunque, scrissi un testo per la consultazione sinodale. Un contributo personale, nient'affatto comunitario, da solitario eremita. Il consiglio parrocchiale di Copreno aveva infatti deciso di lavorare solo su cinque delle diciassette aree tematiche proposte. Quella del "dialogo interconfessionale e interreligioso" era stata esclusa. Mentre la chiesa di Ambrogio si interrogava sulla sua vita e sulla sua missione, la mia comunità cristiana escludeva dal suo orizzonte le altre chiese e le altre religioni. Una scelta che mi sembrò quantomeno inopportuna.
Sono cresciuto in umanità anche grazie ad alcune iniziative di Martini: l'assemblea di Sichem, la Scuola della Parola, la Cattedra del dialogo. Così, sulla base dell'esperienza - gli incontri con ebrei a Camaldoli, l'amicizia con un cristiano valdese, il lavoro con un immigrato libanese di fede islamica - riportai le mie opinioni e qualche sensazione. Mi invitarono in un gruppo di dialogo formato da cattolici, evangelici ed ebrei. Erano anni di fermenti e di entusiasmi.
Leggo oggi - me l'ero dimenticato - che mi qualificai come marrano. Uno di quei "porci" ebrei che nella Spagna cattolica finsero di essere cristiani per evitare l'espulsione e altri guai minori. Studiavo la Bibbia in una facoltà teologica, l'ebraico presso le religiose di Nostra Signora di Sion, la gestione dei conflitti nel villaggio di Nevé Shalom / Wahat as Salaam, dove convivono cittadini israeliani delle tre religioni abramiche. Ma in quegli anni la matrice ebraica della fede cristiana faceva problema. Per questo mi definii provocatoriamente un marrano, un uomo che si sentiva un giorno un poco ebreo e l'altro un poco cristiano.
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