La basilica del Santo Sepolcro sorge in un’area che, duemila anni fa, era esterna alle mura di Gerusalemme. Secondo la tradizione la località è il Golgota su cui venne crocifisso Gesù. Si tratta di un luogo estremamente importante per i cristiani. Ogni sera alle 7 e ogni mattina alle 4 i tre sacrestani latino, greco e armeno, attraverso una feritoia nel portone, passano una scaletta di legno e una chiave ai due musulmani che, per antico decreto, hanno il compito di aprire e chiudere il Santo Sepolcro. I cristiani di diversa confessione danno quotidianamente spettacolo contendendosi i luoghi santi in terra d’Israele e una famiglia di musulmani offre maggiori garanzie in proposito.
Per Vicino Oriente si intende l’area che copre Egitto, Israele, Palestina, Giordania, Libano, Siria, Iraq e, indirettamente, Armenia, Arabia Saudita, Turchia e Iran. Vi sono presenti una ventina di chiese equamente suddivise tra ortodosse, cattoliche e riformate. I cristiani sono pochi milioni e costituiscono solo qualche punto percentuale della popolazione totale. Fatta eccezione per i copti d’Egitto e i maroniti del Libano si tratta di una minoranza quasi senza potere. La situazione è assai disomogenea. La situazione civile delle minoranze cristiane in Israele e dei copti in Egitto, il rapporto chiesa/stato in Siria e in Arabia Saudita e la presenza organizzata dei cristiani in Iraq e nel Libano hanno davvero poco in comune tra loro. Complessivamente i cristiani in quest’area sono in netto calo. I massacri d’inizio secolo, degli armeni anzitutto, e il processo di islamizzazione, per conversione e matrimoni misti, ne sono le principali cause. Non bisogna tuttavia dimenticare la numerose guerre nell’area (Libano, Israele, Iran-Iraq, Golfo, ancora Iraq) e il differenziale demografico (i musulmani fanno più figli dei cristiani).
Per la legge islamica (sharia) i cristiani sono protetti (dhimmi). La categoria coranica di “gente del Libro” consente loro di praticare liberamente il culto, godere della propria attività di lavoro, essere sicuri della vita e dei propri beni. Lo statuto protetto non consente tuttavia la partecipazione ai governo, rende soggetti a una tassazione maggiore e non esenta da gesti umilianti che testimoniano un rango subalterno (le chiese devono essere più basse degli edifici islamici). I cristiani chiedono di poter passare dalla categoria di protetti a quella di cittadini (muwatana). Alcuni giuristi musulmani affermano che oggi i cristiani, in base alla storia e al diritto islamici, hanno diritto alla piena cittadinanza. Celebre resta la formula che il presidente egiziano Mubarak coniò per i copti d’Egitto: la religione è di Dio e la patria è di tutti.
Nello stato di Israele la presenza cristiana dopo il 1967 è soggetta a una vera e propria emorragia. Nemmeno la città di Gerusalemme fa eccezione. La società israeliana è attraversata da profonde divisioni ideologiche e da laceranti conflitti che toccano tutti gli strati e tutte le classi sociali. Il compromesso tra le dimensioni laica e religiosa dello stato vacilla sotto il peso della componente ortodossa che chiede una visione halakica (secondo i precetti) della vita nello stato ebraico. Il conflitto israelo/palestinese rende difficile la vita dei cristiani. La chiusura dei territori palestinesi e dei luoghi santi cristiani è frequente nei momenti di tensione. Secondo il sistema giuridico dell'impero ottomano, passato indenne attraverso il mandato britannico, le comunità cattoliche erano riconosciute di fatto ma non di diritto. Sono recenti lo scambio degli ambasciatori (1993) e l’accordo sulla personalità giuridica delle istituzioni vaticane (1997).
La tentazione dei cristiani nel Vicino Oriente è la chiusura o, più spesso, la fuga. In particolare i cristiani arabi emigrano sempre più verso Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina ed Europa. Si spiega anche così la scelta del Vaticano di affidare al vescovo Jean-Baptiste Gourion la cura dei cattolici di espressione ebraica. Del resto la nomina del francescano Pierbattista Pizzaballa a nuovo custode di Terra Santa è un chiaro contrappeso alla tendenza filopalestinese del patriarcato latino di Gerusalemme retto dall'arabo Michel Sabbah. I neocatecumenali filoisraeliani figurano tra i cristiani più attivi oggi in Israele e sono alcune centinaia di migliaia i cristiani arrivati in Israele negli anni novanta dalla Russia e dai paesi slavi.
È il 23 settembre 1997. Nella notte, in un quartiere alla periferia di Algeri, vengono uccise duecento persone. Un fotografo algerino dell'Agence Trance Presse ritrae una donna alla quale sono stati uccisi otto figli. La foto farà il giro del mondo e ispirerà un articolo dello scrittore Tahar Ben Jalloun intitolato: "Quella madonna...". Due settimane prima un'aggressione simile era costata la vita ad ottanta persone e aveva fatto sessanta feriti. La dinamica è sempre la stessa. I commando fanno irruzione in tarda serata, armati di kalashnikov, spade e asce, e lasciano dietro di sé i cadaveri delle vittime trucidate. Perché?
Dopo l’indipendenza dalla Francia (1962) il Fronte di liberazione nazionale (FLN), partito unico d’Algeria, si stabilisce al governo. Trent’anni dopo, alle elezioni amministrative (1990) e legislative (1991), vince il Fronte islamico di salvezza (FIS). Alle urne si sono recati meno della metà degli elettori. Lo spirito degli anni Sessanta è lontano. L’anelito a una riconquista della sovranità nazionale andava di pari passo con aspirazioni democratiche. Nel corso del tempo la quasi totalità dei dirigenti della guerra di liberazione finirono assassinati in faide fratricide. S’impose un regime militare, in principio sotto influenza sovietica, e la corruzione ingenerò sfiducia e delusione generalizzate. La speranza in un rapido decollo legato alle risorse naturali del paese dovette misurarsi con un divario tecnologico sempre più profondo rispetto all’Occidente che condusse alla dipendenza. Negli anni Novanta i militari, allarmati dai risultati elettorali, annullano le elezioni, sciolgono il FIS, imprigionano i suoi leader e proclamano lo stato di emergenza. La strage del 23 settembre 1997 ricorda, per la loro crudeltà, i terribili massacri compiuti dall’esercito durante il periodo 1993-1995 contro le famiglie degli integralisti rifugiati in montagna. L’Esercito islamico di salvezza (AIS), braccio armato del FIS, scatena il terrorismo.
Nel frattempo il generale Zeroual diviene presidente dell’Algeria (1994) e, pur tra le denunce di brogli degli osservatori internazionali, le elezioni successive (1995 e 1997) lo riconfermano. In Europa e nel mondo esplode la questione algerina: intervenire o no? e dove e come intervenire? Tornano alla mente i paracadutisti della legione straniera del generale Massu resi noti dal film “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo. Che fare allora? dialogare? Il quotidiano indipendente algerino El Watan scrive che il mondo intero punisce i criminali e allora perché gli algerini dovrebbero discutere con stupratori di donne e assassini di bambini? La Piattaforma di Roma (1994) promossa dalla Comunità di Sant’Egidio è l’unico documento politico firmato dalla maggioranza dei partiti compreso il FIS.
Ci può essere libertà religiosa in un paese cosi tormentato? Nel 1993 comincia a circolare notizia che tutti gli stranieri rimasti in Algeria sarebbero stati uccisi. La maggioranza della comunità cristiana, frutto di immigrazione, se ne va. Tra coloro che rimangono nel 1996 vengono uccisi monsignor Claverie, vescovo di Orano, e sette monaci trappisti di Thibirine. L’Arcivescovo di Algeri, monsignor Theissier, ricorda così i funerali di mons. Claverie: “Celebrammo le esequie nella cattedrale di Orano: la metà dei presenti era musulmana, ma ha avuto il coraggio di essere lì con noi. Prima della crisi, i musulmani non sarebbero venuti in chiesa per partecipare a una celebrazione. Ma l’assommarsi di queste prove li ha fatti avvicinare a noi". E’ il 1997 quando Theissier fa il seguente punto della situazione: “La libertà di culto e di riunione, di circolazione, è reale in Algeria. In giugno, abbiamo tenuto l’assemblea della Conferenza episcopale con i nove vescovi... Anche la Caritas lavora con molte associazioni algerine... C’è una popolazione di 30 milioni di persone che fa il proprio lavoro, che vive la propria vita familiare, che studia… Non si può infatti dire che la lotta è tra cristiani e musulmani. La crisi non è una crisi tra cristiani e musulmani, me è di tipo sociale e tutta la società algerina è angosciata a causa di questa violenza: noi ci troviamo con i nostri amici algerini sotto questa stessa violenza… Noi abbiamo deciso di rimanere per fedeltà all’amicizia… Vogliamo essere la chiesa del popolo musulmano, una chiesa solidale”.
Fratel Christian de Chergé, uno dei sette monaci trappisti, scrive: “L’Algeria e l’islam, per me, sono un corpo e un’anima… Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: dica adesso quel che ne pensa! Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze… E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah“.
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