COSCIENZA DI UNA
RADICE….
- Legame
intrinseco Chiesa - Israele
“Cristiani ed ebrei hanno nella
loro fede radici comuni. A lungo noi cristiani lo abbiamo dimenticato e abbiamo
messo in evidenza soltanto le differenze rispetto agli ebrei. Così abbiamo compreso
sempre meno le radici della nostra fede cristiana”. La
pretesa, infatti, di definire l’identità cristiana in opposizione all’ebraismo,
una pretesa saldamente radicata nella mentalità dei cristiani, finisce
inevitabilmente per snaturare la stessa fede cristiana. E’ necessario perciò
“mostrare ora come l’identità cristiana implica un riferimento, e anche una
comunione con il popolo di Israele……La Chiesa non può parlare del popolo
ebraico come di una realtà che le sarebbe estranea….La comunione con Israele è
inscritta nella stessa identità cristiana”.
E’ fondamentale per le Chiese
cristiane riscoprire il loro legame intrinseco e vitale con l’ebraismo. Perciò
esse hanno la necessità non solo di un dialogo con Israele, ma anzitutto di
porsi in ascolto di Israele. E
questo non solo per conoscere come Israele si autocomprende, ma per conoscere
la loro stessa identità. Soltanto in
questo modo i cristiani possono capire il significato della sequela dell’ebreo
Gesù, colui che ha confermato e vissuto la Torà,
annunciandola alle genti, e ha interpretato e fatto comprendere il senso della
sua vita alla luce delle Scritture di Israele.
- Rinnovamento
dell’alleanza
Parlare di due “alleanze”
appartiene ad una lunga tradizione ecclesiale. Purtroppo questa tradizione è
viziata da un pregiudizio difficile da sradicare secondo il quale “antico” era
diventato sinonimo di “invecchiato”, “superato”. Perciò tra le due alleanze si
vedeva un contrasto sostanziale, fondato sulla classica contrapposizione tra
“legge” e “vangelo”. Così l’alleanza nuova decretava di fatto la fine
dell’antica.
La riconciliazione di Dio con
Israele e le genti, la riconciliazione del mondo con Dio per mezzo del Cristo
crocifisso, sul fondamento della quale noi (i cristiani) speriamo la redenzione
di Israele, dei popoli e del cosmo, riposa sull’alleanza mai revocata tra Dio e
Israele”.
Gesù Cristo, pertanto, non rende
affatto “antiquata” l’alleanza di Dio con Israele.
“Noi cristiani confessiamo,
insieme al Nuovo Testamento, che per la morte e risurrezione di Gesù ci è stato
dischiuso il nuovo patto con Dio… Ebbene, questa non è un’altra alleanza, che
avrebbe rimpiazzato quella sinaitica. Si tratta dell’unica e medesima alleanza
di grazia…L’alleanza è stata stabilita innanzitutto con Israele e solo successivamente,
«per mezzo di Gesù Cristo e insieme al suo popolo, vi si è inserita anche la
chiesa»….Chi fonda in primo luogo l’esistenza anche della chiesa è dunque non
il Nuovo Testamento ma l’Antico. E se la chiesa rinunciasse al messaggio
dell’Antico Testamento rinuncerebbe pure a se stessa, quale chiesa della nuova
alleanza”.
- Rapporto tra
Antico Testamento e Nuovo Testamento
Il rapporto tra l’Antico e il
Nuovo Testamento non è quello tra promessa e adempimento.
Un’interpretazione assai diffusa
dell’Antico Testamento parte dal presupposto che esso è soltanto “preistoria” e
“preparazione” al Nuovo Testamento.
“Questa visione tradizionale dell’Antico
Testamento, come preparatorio e preliminare, e del Nuovo Testamento, come
definitivo compimento, necessita di una seria revisione”.
Il movimento cristiano, sorto
all’interno del giudaismo, nella sua ricerca di una interpretazione che
rendesse comprensibile l’avvenimento sconcertante della morte di Gesù, fece
quello che avrebbe fatto ogni ebreo di quel tempo. I discepoli di Gesù per
trovare le parole e i simboli di cui avevano bisogno “si rivolsero
istintivamente al mondo che essi conoscevano meglio, quello di cui potevano
fidarsi e quello in cui poteva essere trovata la volontà di Dio, il mondo dello
loro sacre scritture”. Ed,
evidentemente, al mondo delle loro sacre scritture così come erano interpretate
nei targumim e nei midrashim.
“E’ perciò fuorviante dire che la
chiesa trovò Gesù nelle scritture, il cosiddetto Antico Testamento. Ciò che
essa trovò è che le scritture parlano di Gesù, poiché fu dalle scritture di
Israele che essa all’inizio imparò come parlare di lui. Essa imparò fin
dall’inizio a parlare di lui nel linguaggio di Israele……Senza quelle scritture
e senza la convinzione dei discepoli che una verità (reality) doveva essere
trovata in esse, non ci sarebbe stato l’evangelo, e così non ci sarebbe stata
né la chiesa né i Vangeli”.
4.
Il permanere
di Israele come fatto storico: un segno da interpretare
La storia di Israele non finisce nell’anno 70 d. C. con la
distruzione del Secondo Tempio come vorrebbe la tesi che ha portato la
tradizione cristiana ad affermare che l’inizio del cristianesimo coincide con
la fine dell’ebraismo.
La nostra identità non è fondata sul fatto che abbiamo
preso il posto di Israele. Perciò dobbiamo abbandonare l’idea che la chiesa sia
il “nuovo Israele”. L’Israele della Bibbia trova la sua continuità nell’Israele
vivente.
Partendo da questa premessa, dobbiamo allora riconoscere che al popolo ebraico,
nella sua concretezza storica, comunque essa si manifesti, appartiene anche il
titolo biblico di “popolo di Dio”.
“Se continuiamo a
denominare noi stessi, la cristianità o la chiesa, «popolo di Dio», sottraiamo
agli ebrei ciò che appartiene a loro….La chiesa non si colloca in questa
continuità immediata con l’Israele biblico, ma rappresenta qualcosa di nuovo.
Come si possa formulare questo «nuovo» senza ledere i diritti di Israele è uno
degli interrogativi a cui ancora dobbiamo dare risposta”.
5.
L’ascolto
cristiano di Israele
Una “teshuvà” delle chiese
cristiane nei confronti dell’ebraismo a partire dalle Scritture, che non voglia
rischiare di ridursi ad affermazioni di principio, può trovare la sua
dimensione di autenticità soltanto nell’ascolto dell’Israele vivente. Un umile e
sincero atteggiamento di ascolto esige che anzitutto ci si interroghi su ciò
che esso può significare.
Se l’amore per Israele è “un
imperativo teologico”,
esso richiede una risposta concreta e precisamente una risposta che non può
esaurirsi nell’essere contro l’antisemitismo o contro l’antigiudaismo, che ne è
la matrice religiosa, e neppure nel riconoscimento teorico dell’esistenza di
Israele. “Non è sufficiente essere contro chi è contro; bisogna piuttosto
essere per ed esserlo in maniera conseguente e programmatica. Bisogna
quindi essere per il popolo ebraico, per la sua cultura, per i suoi
valori, per la sua ricchezza umana e spirituale, per la sua storia, per la sua
straordinaria testimonianza religiosa. E, al fine di essere per, si
rende necessario studiare le tradizioni ebraiche, divulgarle, farle conoscere
nel loro fascino e nella loro perenne validità: dalle pagine della Torah (che
noi cristiani chiamiamo Pentateuco), fino ai profeti, ai salmi, al Talmud,
all’esegesi rabbinica, ai racconti chassidici, alla cabbala e a tutte le
diverse espressioni della mistica”.
Ciò può avvenire solo cercando di
ascoltare Israele attraverso un contatto e sotto la guida dei maestri di
Israele di ieri e soprattutto di oggi.
“L’incontro con Dio nello studio della Torah è possibile anche per i
cristiani. Fa sentire qualcosa della “Gioia della Torah”, di un’esperienza
specificamente ebraica”. In
questo modo i cristiani sono chiamati a fare “l’esperienza del Sinai”.
Infatti “attraverso lo studio
della Torah è l’esperienza del Sinai che si trasmette di generazione in
generazione. Fare l’esperienza del bet ha-midrash è fare l’esperienza
del Sinai”.
Il Sinai parla attraverso Sion.
Essi non sono in fondo che uno stesso monte:
“Sion colma con la sua presenza il vuoto dell’introvabile Sinai, il Sinai
invece dà la sua voce a Sion facendone un centro non solo cosmico ma anche
morale. «La presenza è la presenza di Sion, ma la voce è la voce del Sinai».”. La
voce del Sinai risuona ancora oggi per chi la sa ascoltare attraverso la
testimonianza di Israele, attraverso la voce vivente di un Israele reale.
E’ proprio ciò che i cristiani
hanno dimenticato in questi duemila anni, pensando che gli ebrei non potessero
fare altro che offrire ai cristiani dei testi che essi non erano più in grado
di comprendere. Ma ci sono segni che giustificano la speranza in una “teshuvà”
dell’atteggiamento delle Chiese cristiane verso Israele. “Il fatto che siano
oggi dei cristiani a portare il peso dei testi sacri della tradizione ebraica,
testi che non comprendono, ma che vorrebbero capire, e che perciò fanno appello
ai maestri di Israele per ricevere la loro parte di Torah, è qualcosa di
straordinario”
Se la responsabilità educativa di
Israele nei confronti delle nazioni è un aspetto essenziale della sua
testimonianza, l’umiltà di chi sa che ha molto da imparare alla scuola di
Israele lo porterà “a bussare alla porta delle scuole di Israele, domandando la
Torah”.
Ai piedi del Sinai non furono
presenti le nazioni e perciò la Torah fu accolta solo da Israele. Ma è parte
della sua speranza che l’umanità intera scopra il valore e il significato
universale del Sinai.
“Se vogliono, tutti possono
studiare. Non vi sono ostacoli e barriere per chi voglia fare ritorno al Sinai.
Il Sinai è aperto alla famiglia umana”.
Ci sono certamente all’interno
dell’ebraismo anche posizioni meno aperte sulla possibilità di aprire lo studio
della Torah ai gentili. C’è comunque nel Talmud un testo che merita di essere
ricordato: “R. Meir usava dire: «Da dove sappiamo che persino un gentile che
studi la Torah è come un Sommo Sacerdote? Dal versetto “Voi quindi vi
uniformerete ai miei statuti e ai miei giudizi che se l’uomo così farà, vivrà
in essi”. Non i sacerdoti, i leviti e gli israeliti, bensì gli uomini sono
menzionati: potresti quindi scoprire che persino un gentile che studi la Torah
può considerarsi come il Sommo Sacerdote! Ciò si riferisce alle loro sette
leggi”.
6.
La chiesa
alla luce del “mistero” di Israele
Ma non basta affermare il mistero della permanenza
dell’elezione di Israele. Occorre che i cristiani si interroghino sul
significato di questa affermazione e ne traggano le conseguenze implicate.
P. Stefani si è espresso più volte in questi ultimi anni
sull’importanza che la riflessione teologica non continui a incentrarsi sul
rapporto “Israele-Chiesa”, ma ripensi il tema dell’elezione all’interno della
polarità “Israele-Genti”.
L’elezione di Israele come “popolo particolare” è da
situare in rapporto alle Genti e non alla Chiesa, come comunità dei discepoli
di Gesù. Altrimenti, una volta che si è arrivati ad affermare che l’elezione di
Israele e quella della Chiesa non si devono più considerare come reciprocamente
escludenti, non si riesce poi a capire come possano vicendevolmente integrarsi.
L’elezione di Israele non deve essere considerata come un
privilegio da imitare per diventarne partecipi, ma come una grazia e un compito
che il Dio di Israele, che è il Dio di tutta la terra, gli affida perché,
mediante la sua testimonianza, possa essere realmente riconosciuto come Dio
dalle Genti.
La Chiesa non nasce anzitutto dal “no” pronunciato dalla
gran parte di Israele, sorge anzitutto dal “sì” ebraico a Cristo.
“Proprio dando un peso prioritario al «sì» di Israele a
Gesù Cristo si può comprendere perché la Chiesa si dia all’origine formata
costitutivamente da una ecclesia ex
circumcisione e da una ecclesia ex
gentibus. …Tutto ciò, a propria volta, sta ad indicare una specie di
originaria e ineliminabile dipendenza della Chiesa da quanto la precede (questo
è appunto il senso pieno da attribuire a quell’ex), da cui deriva la sua radicale impossibilità di annullare in se
stessa la polarità Israele-Genti nel momento stesso in cui esprime il mistero
dell’unità, in Cristo, del Giudeo e del Greco….In
realtà, Israele è scelto fra e per le Genti, mentre la Chiesa è la comunità dei
credenti che sono uno in Cristo pur conservando il senso legato alla loro
provenienza ex circumcisione ed ex gentibus”.
Una delle più suggestive ed efficaci icone di questa
realtà si trova nel mosaico paleocristiano di S. Sabina in Roma, dove due
matrone raffigurano l’una “ l’ecclesia ex circumcisione” e l’altra “l’ecclesia
ex gentibus”.
Conclusione
C. M. Martini concludeva la VI Cattedra dei non credenti
(ottobre-novembre 1992) sul tema “Chi è come te tra i muti? L’uomo di fronte al
silenzio di Dio”, citando alcune parole di Martin Buber. In una riunione di
missionari cristiani a Stoccarda, egli si chiedeva: “Che cosa abbiamo in
comune? Un libro e un’attesa. La
vostra attesa è diretta alla seconda venuta del Signore; la nostra, di ebrei,
alla venuta che non è stata anticipata dalla prima. Ma possiamo attendere
insieme l’avvento dell’Uno, e vi sono momenti in cui possiamo preparare la via
davanti a lui, insieme”.
Questa dimensione comune dell’attesa è sottolineata dalla
Chiesa evangelica della Renania che nel 1996 ha inserito nella sintetica
“confessione” della Chiesa, che precede l’esposizione del suo “ordinamento
ecclesiastico”, questa affermazione: “[La Chiesa evangelica della Renania]
testimonia la fedeltà di Dio che resta fedele all’elezione del suo popolo
Israele. Con Israele spera in un nuovo cielo ed in una nuova terra”.
Nella luce della promessa profetica del pellegrinaggio
delle Genti a Sion,
i cristiani insieme agli ebrei sono al servizio della venuta del regno di Dio e
della sua giustizia e perciò sono chiamati a custodire insieme, anche se
attraverso vie diverse, la vivente speranza del regno che viene (‘olam ha-ba)
e della creazione nuova dei cieli e della terra in cui abiterà la giustizia.