venerdì 17 gennaio 1997

17 Gennaio 1997. Giornata dell'ebraismo. Diocesi di Milano

“Facci tornare a te e noi ritorneremo” (Lam 5,21)


PRESENTAZIONE


La giornata del 17 gennaio, istituita nel 1989 dalla Conferenza Episcopale Italiana per “l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo cristiano-ebraico”, va ritenuta un evento di grande rilevanza per la comunità ecclesiale. Si tratta infatti di un’occasione unica per la riproposta di sensibilizzazione, di informazione e di approfondimento, del "vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo" (Nostra Aetate, n. 4).

Il rapporto cristiano-ebraico, impostato su basi nuove dal Concilio Vaticano II, non deve più essere un impegno solo di vertice nella Chiesa, di alcuni gruppi o movimenti, ma deve diventare coscienza ecclesiale di base. A questo proposito è utile rileggere quanto affermò il Card. Martini: "Un ritardo che ci deve pesare molto... è il non aver considerato vitale la nostra relazione con il popolo ebraico. La Chiesa, ciascuno di noi, le nostre comunità non possono capirsi e definirsi se non in relazione alle radici sante della nostra fede e quindi al significato del popolo ebraico nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente" (Popolo in cammino, Milano 1983, p. 79); e ancora: "il problema si è fatto più preciso e decisivo per il futuro della stessa chiesa. La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l'acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi" (Per sviluppare le relazioni ebraico-cristiane, in Israele, radice santa, Centro Ambrosiano Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 37 s.).

Perché la giornata del 17 gennaio 1997 abbia una sua identità la Conferenza Episcopale Italiana ha scelto di approfondire il tema seguente: Teshuvà: l’esperienza del ritorno a Dio nel messaggio di Israele”.

 

IL TEMA DELLA GIORNATA DEL 17 GENNAIO 1997

 

Il termine rabbinico Teshuvà significa principalmente ritorno o pentimento e deriva dal grido profetico: «Torna, dunque, Israele, al Signore tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità» (Os 14,2; cfr. Dt 30). Nella Bibbia la Teshuvà è generalmente testimoniata da un atto collettivo che coinvolge tutta la nazione e solo a partire dall’epoca rabbinica ha assunto il significato di penitenza per l’individuo in reazione al peccato personale.

M. Solomon, in un articolo riportato di seguito e intitolato Teshuvà, scrive che la potenza rigeneratrice della Teshuvà è tale che trasforma tutte le attitudini negative dell’individuo in positive. La ritrovata consapevolezza dell’interdipendenza con la natura è un esempio di un esteso movimento di Teshuvà moderna. Ma Teshuvà significa anche risposta e replica e rimanda, secondo il moderno pensiero esistenzialista ebraico (M. Buber, A.J. Heschel e altri), a un’apertura al dialogo e all’ascolto rivolta, oltre che a Dio, anche a tutte le persone che ci sollecitano una risposta.

Il cristianesimo ha ricevuto da Israele e dalle sue Scritture l'esperienza e il linguaggio della conversione. Convertirsi, secondo il messaggio di Gesù, è rispondere a una sorta di urgenza spirituale dettata dalla prossimità della fine dei tempi.

H. Bourgeois, in un articolo riportato di seguito e intitolato La conversione secondo il cristianesimo, scrive che il verbo shuv, che significa voltarsi o tornare indietro, è tradotto nei vangeli in due modi: con il vocabolo greco classico epistrephein e con metanoein che indica etimologicamente una riorganizzazione delle nostre possibilità mentali e spirituali. La conversione può essere espressa in entrambi i modi solo a condizione che il secondo non faccia dimenticare il primo. La Teshuvà implica dunque anche il pentimento delle Chiese per le loro infedeltà nel corso della storia. Come afferma il Concilio Vaticano II "la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento" (Lumen gentium, 8).

 

Commenti ebraici tradizionali

(a cura di I. Gargano)

 

Dio del mondo, se noi ci pentiamo, tu ci accetterai? Dio rispose: «Io ho accettato il pentimento di Caino e non accetterò il vostro?» [Pesiqtah, 160a].

Sette cose furono create prima del mondo: la Torah, il pentimento, il paradiso, l’inferno, il trono di Dio, il tempio, il nome del Messia [Pesahim, 54a].

Rabbi Meir diceva: «È così grande la conversione al bene che per un uomo solo che si pente, egli e tutto il mondo saranno perdonati» [Mishnah Yoma, 86].

I penitenti sono considerati su un piano più elevato che gli stessi giusti e perfetti [Moed qatan, 19].

R. Zutra b. Tubia ha detto in nome di Rab: «II pentimento è una grande cosa perché se un individuo si pente, il mondo intero è perdonato insieme con lui» [Mishnah Yoma, 86a].

Le porte della preghiera ora sono aperte, ora sono chiuse, ma Le porte del pentimento sono sempre aperte. Come il mare, che è disponibile per tutti. così è la mano dell'Unico santo, benedetto egli sia, sempre aperte e disposte ad accogliere coloro che si pentono [Debarim Rabbà 2,12].

Una banda di ladri era tenuta in prigione. Cosa fecero allora? Fecero un tunnel e fuggirono tutti eccetto uno. Quando arrivò il carceriere, cominciò a picchiarlo coi manganello dicendogli: «Stupido pigro! Pazzo sfortunato! I1 varco era lì e tu non ti eri messo a correre?». Così nel tempo futuro l'Unico Santo, benedetto egli sia, dirà ai cattivi: «Teshuvah era lì davanti a te e tu non ti sei pentito» [Debarim Rabbà 2,12].

«Il pentimento e le buone azioni sono uno scudo davanti alla punizione» (Avot 4,13). Rabbi Aqiba dice: «Il pentimento è stato creato e la destra del Santo benedetto è tesa per ricevere ogni giorno i penitenti ed Egli dice: "Ritornate, figli dell'uomo" (Sal 90,3). Prendi conoscenza del potere della carità e del pentimento! Vieni e vedi. Achab re d'Israele si è pentito sinceramente; aveva rubato, violentato e ucciso. Dopo il suo pentimento non ritornò alle sue cattive azioni, e il suo pentimento fu accettato» [Pirqè de R. Eliezer, cap. 43].

«Quando un uomo va da un re terreno, parte con le mani piene e ritorna con le mani vuote: quando invece va dal Signore, all'andare è vuoto, ma al ritorno è pieno» [Pesiqtah Rabbati)

Per quale merito verrà il Messia? Per merito della penitenza che è simile all’acqua com’è detto: «Versa il tuo cuore come l'acqua» (Lam 2,19) [Bereshit Rabbà 2,4].

 

TESHUVA’

(di M. Solomon)

 

La Teshuvà1 è la fondamentale dinamica interiore del giudaismo. Se la Torà è la nostra guida verso la redenzione, il pregare è l’espressione del nostro desiderare ardentemente la redenzione e le mitzwot (buone azioni) il veicolo della redenzione che creiamo intorno a noi, la Teshuvà è il motore che ci spinge avanti e ci permette di ricominciare ogniqualvolta siamo schiacciati da una sosta forzata.

Il principale significato letterale del termine Teshuvà è ritorno o pentimento; la parola non occorre nella Bibbia, ma è il termine che i rabbini hanno coniato dal grido di Osea: «Torna, dunque, Israele, al Signore tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità» (Os 14,2) 2, un grido alzato dai profeti successivi e dal Deuteronomio (cfr. cap. 30)

Dalle parole di Malachia: «Ritornate a me e io ritornerò a voi» (3,7) il Midrash intreccia una acuta parabola. Un re aveva un figlio che aveva commesso un grave peccato e venne esiliato in un paese lontano, dopo qualche tempo il re iniziò a struggersi dal desiderio di suo figlio e gli inviò un messaggero per dirgli: «Ritorna a me». Il figlio replicò: «Non posso ritornare perché il cammino è troppo lungo». Subito il re gli inviò un messaggio: «Non aver paura, ma comincia a metterti in viaggio e cammina fin dove puoi; io percorrerò il resto del cammino incontro a te».

Nella Bibbia la Teshuvà è generalmente un atto di tutta la nazione. Dall’epoca rabbinica essa ha assunto il significato di penitenza per l’individuo, una reazione al peccato personale che era riuscito ad accentrare l’attenzione delle persone nella tarda antichità. Presentava due aspetti: una risposta ad una precisa cattiva azione e un convincente stato d’animo di penitenza. Il desiderio di quest’ultimo è efficacemente espresso da Rabbi Eliezer (I-II sec. e.v.) che disse: «Pentiti un giorno prima di morire». I suoi discepoli chiesero: «Chi conosce il giorno della morte?». Egli replicò: «A maggior ragione allora si penta oggi perché forse domani morirà, così tutta la sua vita sarà trascorsa nella Teshuvà».

La metodologia del pentimento sviluppata dai rabbini e codificata da Maimonide comporta quattro tappe: riforma di vita, ferma decisione di cambiare, pentimento per il male commesso e confessione del peccato. La prova del vero pentimento è esposta da Rabbi Giuda (III sec. e.v.): «(Si pente) chi, quando ha opportunità di ritornare a peccare una volta, due volte, resiste. Egli aggiunse: con la stessa donna, nello stesso periodo, nello stesso luogo».

La prima fondamentale tappa del processo è l’interiore riforma di vita del peccatore, che come indica la parola stessa Teshuvà, è un riorientamento della mente, un voltarsi indietro. Un maestro chassidico del diciannovesimo secolo così interpreta il versetto del salmo: «Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sl 103,12). «Come quando stai di fronte all’oriente occorre soltanto che tu ti volti indietro per essere di fronte all’occidente, allo stesso modo se tu pecchi è semplicemente necessario un lieve voltarsi indietro della mente per essere molto lontano dalla tua trasgressione».

 

Il primato della Teshuvà

 

Il fondamentale ardente desiderio religioso di riparazione ha spinto i rabbini a elevare la Teshuvà alla posizione di una delle prime realtà dell’universo spirituale. Il Talmud (Pesachim 54a) enumera sette cose che sono state create prima dell’universo: la Torà, la Teshuvà, il Paradiso, la Geenna, il Trono della Gloria, il Santuario e il Nome del Messia. All’obiezione che finché non esistevano le prime sei la Teshuvà non era necessaria la risposta data è che: «Il Santo, Benedetto Egli sia, fornisce il rimedio prima della malattia». Allora la Teshuvà è presente da prima delle origini come potenzialità di cambiamento nel cuore dell’esistenza. Anche prima della distruzione del Tempio i significati cultuali della riparazione prescritti nella Torà erano accessibili e la Teshuvà era il sine qua non: «L’offerta per il peccato, l’offerta per la colpa commessa, la morte e il Giorno dell’Espiazione, tutti insieme non espiano il peccato senza la Teshuvà». I rabbini rispondono alla crisi per la distruzione del Tempio e alla perdita dei riti per la riparazione cultuale con l’atto coraggioso di dichiarare che è sufficiente la sola Teshuvà: «Rabbi Yose ben Tartos disse: “Da che cosa si può dimostrare che chi si pente è guardato come una persona che è salita a Gerusalemme, ha costruito il Tempio, ha eretto l’altare e ha offerto su di esso tutti i sacrifici indicati nella Torà?”. Dal versetto: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio” (Sl 51,19)».

Non importa quanto sia grande il peccato o convinto il peccatore, la Teshuvà è sempre a disposizione e sempre efficace, come testimoniano molti racconti rabbinici. Uno di questi si riferisce al primo omicida a proposito del versetto: «E Caino si allontanò» (Gn 4,16). Il Midrash commenta: «Egli uscì rallegrandosi. Sulla strada Caino incontrò Adamo che gli disse: “Che cosa è accaduto della sentenza pronunciata su di te?”. Caino replicò: “Mi sono pentito e sono stato perdonato”. Quando Adamo ebbe ascoltato ciò, iniziò a schiaffeggiarsi il volto e disse: “E’ tanto grande la potenza del pentimento? Non sapevo che fosse così”».

Un altro Midrash contrapponeva la Teshuvà alla preghiera: «le porte della preghiera qualche volta sono aperte e qualche volta sono chiuse, ma le porte del pentimento sono sempre aperte». Dio non solo è sempre pronto ad accettare il sincero pentimento ma, a dire il vero, a facilitarlo. A proposito del versetto: «Aprimi, sorella mia» (Ct 5,2) Rabbi Issi commenta: «Dio dice ai figli d’Israele, apritemi figli miei la porta del pentimento tanto quanto la cruna di un ago e aprirò per voi porte larghe abbastanza da far entrare per esse carri e vagoni».

«Rabbi Levi disse: se i figli d’Israele desiderassero pentirsi un solo giorno sarebbero salvati e il Figlio di Davide verrebbe subito, come dice il salmo: “Ascoltate oggi la sua voce” (Sl 95,8)». Quest’ultima affermazione, nonostante sia tipica del modo iperbolico di esprimersi dei rabbini, comunica l’idea dell’effetto assolutamente trasformante, salvifico della Teshuvà per l’individuo, per il popolo e per il mondo intero. In un certo numero di detti la Teshuvà sembra il summum bonum dell’esistenza umana: «E’ meglio un’ora di pentimento e una buona azione in questo mondo che la vita intera del mondo a venire».

 

La potenza della Teshuvà

 

La potenza rigeneratrice della Teshuvà è tale che non trasforma semplicemente l’individuo ma di fatto converte tutto ciò che era per così dire “energia negativa” in “energia positiva”. Il peccato non scompare semplicemente dalla mentalità del penitente, ma in realtà si trasforma in una equivalente “quantità” di virtù. In un lungo elenco di preghiere della Teshuvà, Resh Lakish (III sec. e.v.) asserisce: «Grande è la Teshuvà, perché i peccati di una persona (se si pente) diventano come le buone azioni per l’amore».

Utilizzando il tema della felix culpa, Rabbi Levi Isacco di Berdicev, uno dei più grandi maestri chassidici del diciottesimo secolo, rassicurava un tristemente famoso peccatore dicendogli che lo invidiava molto perché, se si fosse pentito, ciascuno dei suoi peccati avrebbe brillato splendentemente ed egli sarebbe stato tutto luminoso: «Tu sei destinato ad essere una splendida luce, per questo io ti invidio». Il Talmud porta quest’idea alla sua apparentemente illogica conclusione nella sua famosa affermazione che “nel luogo dove si trovano i peccatori pentiti perfino i perfettamente giusti sono incapaci di stare”. L’immagine rende la verità profonda inclusa in questo paradosso: in questo caso, nello sperimentare il peccato resistendogli e trascendendolo facendo Teshuvà, il penitente è diventato consapevole ed è cresciuto facendo dei cammini che chi non è passato attraverso questo processo non potrebbe mai fare. A causa della nostra debolezza emerge un’unica forza e quando vinciamo noi stessi riportiamo la più grande vittoria.

Per mezzo della Teshuvà, come esprime Rabbi J.B. Soloveitchik, uno dei più grandi pensatori di questo secolo, il futuro è vittorioso sul passato. La Teshuvà resiste al destino e indebolisce l’atteggiamento fatalistico poiché essa sfida l’idea che ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo stati determina inesorabilmente ciò che saremo e faremo. La Teshuvà offre la possibilità di cambiare e rinnovarsi, è l’essenza della nostra libertà, anzi della nostra umanità, perché nel tornare a Dio noi torniamo al nostro più vero e più profondo io: l’immagine di Dio secondo cui siamo stati creati. Per Nachman di Bratzlav, uno dei più radicali maestri chassidici, è per mezzo della Teshuvà che diventiamo veramente umani. Nel suo tipico, incisivo stile asserisce che: «Prima del pentimento una persona non ha una vera esistenza e sarebbe meglio per lei non essere nata, è la Teshuvà che ci dà l’esistenza. Una persona proclama per mezzo della Teshuvà: “ Io sono pronto a vivere come una persona meritevole”».

E’ così grande la potenza della Teshuvà nella visione di Nachman che attraverso di essa rinasciamo ancora: «Uno sguardo sulle nostre trasgressioni ci trasforma in creature rinate».

La rinascita attuata dalla Teshuvà si può tuttavia estendere oltre l’individuo. In una delle asserzioni più sbalorditive del Talmud, nell’elogio del pentimento forse pensato in funzione di una polemica anticristiana, leggiamo: «Rabbi Meir era solito dire: “Grande è la Teshuvà, poiché in considerazione di una sola persona che si pente il mondo intero è perdonato come è detto: Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore, poiché la mia ira si è allontanata da lui (Os 14,5)3”. Il versetto non dice “da loro”, ma “da lui”».

 

La Teshuvà: il contesto più ampio

 

Molti pensatori ebrei moderni sono ritornati all’idea biblica della Teshuvà come di un movimento, non dell’individuo, ma della nazione. Nel pensiero sionista la Teshuvà diventa il ritorno degli ebrei alla terra di Israele e al loro vero destino come una nazione che vive e che usa la sua creatività nella terra dei suoi avi. A.D. Gordon, uno dei primi importanti ideologi del sionismo, fece quest’ulteriore passo intuendo che nei primi secoli della diaspora il Giudaismo è stato snaturato dalla separazione degli ebrei dalla terra e che solamente il lavoro agricolo poteva restituire l’anima al popolo ebraico.

In senso più ampio potremmo dire che la nostra ritrovata consapevolezza della nostra interdipendenza col mondo della natura, il nostro desiderio di tornare “alla natura” e il nostro rimorso per i danni che abbiamo causato all’ambiente è un esempio di un esteso movimento di Teshuvà, che si sta verificando nelle nostre vite.

Nella società si sta verificando un altro esempio di Teshuvà citato in particolare dagli ebrei ortodossi: è il fenomeno comune dagli anni ‘60 a giovani uomini e donne con background simili che hanno riscoperto le loro radici ebraiche e hanno abbandonato il modo di vivere integrato dei loro genitori per uno stile di vita ortodosso strettamente osservante. Le molte migliaia di persone che hanno percorso questo sentiero negli ultimi decenni vedono loro stessi e sono comunemente noti come baalei teshuvà, letteralmente penitenti. Questa è anche una manifestazione di una tendenza verso modi estremi o reazionari di esprimere la religione evidenti da un capo all’altro del mondo, e alcuni potrebbero essere inclinati a mettere in discussione il valore di tali movimenti di Teshuvà e le loro conseguenze spirituali, morali e sociali.

Tra i più recenti pensatori che hanno riflettuto sul significato della Teshuvà, nessuno è più profondo di Jizchak Kook (1865-1935), il primo rabbino capo ashkenazita della Palestina. Permeato della tendenza semi-monistica di molti maestri cabbalistici e chassidici, Kook interpreta la Teshuvà come l’impulso di tutta l’esistenza a ritornare alla sua origine nell’Uno. Egli scrive che: «La penitenza emerge dalle profondità dell’esistenza, da quelle grandi profondità in cui l’individuo non si trova come entità separata, ma piuttosto come una continuazione della vastità dell’esistenza universale. Il desiderio di penitenza è in relazione alla volontà universale, alla sua più profonda sorgente... Nel grande canale in cui scorre la forza che mantiene in vita ci è rivelata la sorgente unitaria di tutta l’esistenza e nello spirito di penitenza che aleggia al servizio della vita, ogni cosa è rinnovata ad un più alto livello di bontà, di gioia e di purezza. La penitenza è ispirata dal desiderio ardente di tutta l’esistenza di essere migliore, più pura, più vigorosa a un livello superiore a questo».

La Teshuvà, per riassumere il pensiero di Kook, è “l’impulso dell’anima verso la perfezione, per superare i limiti imposti dalla finitezza dell’esistenza. E’ una possibilità di reincontrarsi con Dio... La penitenza nell’uomo, in altre parole, è solo un episodio nell’intero dramma della vita cosmica... Il suo fondamentale centro è la ricerca dell’auto perfezione, ma straripa nello sforzo di migliorare la società e il mondo”.

 

Una sfida per l’oggi

 

Finora abbiamo considerato molti aspetti della Teshuvà che interpretano la parola col significato di “ritorno”. Questo non è tuttavia il solo significato della parola ebraica Teshuvà, che comunemente significa anche “risposta, replica”. Questo significato non era tradizionalmente associato al pentimento ed è solo con il moderno pensiero esistenzialista ebraico come la filosofia del dialogo di Martin Buber e gli scritti di Abraham Joshua Heschel che questa feconda connessione si è realizzata.

Nella Genesi Dio rivolge la prima domanda ad Adamo: «Dove sei?» (Gn 3,9). La stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi continuamente: dove sei nella tua vita, a quale stadio sei arrivato? Che cosa stai cercando? dove ti stai nascondendo? La Teshuvà è la nostra risposta, la nostra disponibilità e il nostro sforzo per entrare in dialogo con Dio, l’eterno Tu. Attraverso le generazioni, iniziando da Abramo (Gn 22,1) la risposta dei cercatori di Dio è stata: “Eccomi”, un’apertura a quel dialogo, a quella richiesta. La Teshuvà è un’attitudine all’ascolto, è un essere sensibili alla voce di Dio, alla voce della coscienza che ci chiede di esaminare noi stessi scrupolosamente e di responsabilizzarci. Ma la nostra Teshuvà, la nostra risposta non deve essere rivolta solamente a Dio, perché anche gli altri tu ci chiamano, ci sollecitano a una risposta. Tutto il vero dialogo è Teshuvà.

Tra le ultime generazioni abbiamo testimoniato gli inizi di un nuovo supremo atto di Teshuvà nella forma del dialogo interreligioso e specialmente il dialogo ebraico-cristiano. Per quelli che sono entrati in esso da ogni parte, questo ha imposto uno sforzo di conversione, non semplicemente per gli errori commessi, ma ancora più profondamente per i secoli in cui non ci siamo guardati in viso, per il rifiuto ad ascoltare con magnanimità e a parlare con rispetto, per il rifiuto della reciproca comprensione. Ora, infine, abbiamo iniziato a prestare attenzione alla chiamata che non arriva solo dall’altro, ma da Dio, perché quando ci rispondiamo l’un l’altro rispondiamo all’immagine divina che l’altro incarna. Noi ci siamo rivolti l’uno verso l’altro e insieme verso la luce in cui tutte le verità trovano il loro significato. Forse solo ora possiamo iniziare ad essere veramente degni della nostra vocazione: solamente nel voltarci e nel rispondere agli altri possiamo soddisfare la nostra potenzialità, scoprire l’estensione della nostra libertà e diventare più fedelmente noi stessi.

 

Note

 

1. Teshuvà è il ritorno a Dio. Si potrebbe paragonare ad una inversione ad U, un ritornare sui propri passi. Nell’articolo lascerò sempre il termine ebraico. [Nota del traduttore]

2. Le citazioni della Bibbia sono quelle della traduzione della C.E.I. Le traduzioni dall’inglese saranno segnalate in nota.[Nota del traduttore]

Ho tradotto il passo di Osea direttamente dall’inglese perché utilizzando la versione della C.E.I. dice “allontana da loro”, ma questo non permette di comprendere il commento del Talmud. Il testo inglese ha “him” lui [Nota del traduttore].

 

LA CONVERSIONE SECONDO IL CRISTIANESIMO

(di H. Bourgeois)

"Convertitevi": il messaggio profetico, a cui il giudaismo rivolge una fedele attenzione ogni giorno e ogni anno, giunge anche ai cristiani per orientare e riorientare costantemente la loro vita. Vorrei fare qui il punto sulla "teshuvà", la conversione, così come i cristiani la comprendono e cercano di accoglierla nella loro esistenza.

 

Una fedeltà biblica

 

Appare subito chiaro che il cristianesimo ha ricevuto da Israele e dalle sue Scritture il linguaggio e l'esperienza della conversione. Ritornare a Dio, alla sua volontà e alla via da lui tracciata, abbandonare la strada dell'errore, non è un programma che l'uomo potrebbe darsi da solo, ma è un invito che gli è indirizzato dal Dio dell'Alleanza. "Ciascuno ritorni dalla sua vita malvagia" (Ger 36,3). Voltarsi per fare ritorno a Dio da cui ci si era allontanati significa rispondere a un appello e ricevere da Dio i mezzi spirituali per compiere questo cammino: "Fammi ritornare e io ritornerò" (Ger 31,18).

I cristiani ricevono dunque dalla Bibbia un messaggio di umile realismo e di decisiva speranza: anch'essi riconoscono che sono peccatori e che possono, perché Dio lo vuole, abbandonare la via del peccato e riprendere la strada di Dio, poiché le porte della conversione sono "sempre aperte" per chi ha fede nel Dio tre volte santo e nella sua grande misericordia.

La conversione è dunque buona notizia da meditare e da attuare. Anche altri termini, certamente, esprimono il mistero della nostra relazione con Dio. I1 cristianesimo attuale ama parlare di riconciliazione o di perdono; gli capita anche di entusiasmarsi del "risveglio" a cui invita la predicazione di certe Chiese; sa con san Giovanni che "credere" è l'atteggiamento fondamentale in cui è implicata la conversione. Ma i cristiani non dimenticano di dire che essi devono convertirsi. Questa fedeltà al linguaggio biblico non è semplicemente un fatto di memoria o di tradizione, ma ha una portata spirituale, perché la parola "conversione" sottolinea nell'esperienza credente il suo aspetto di ritorno e di pentimento, il suo carattere concreto (confessare i propri peccati, cambiare vita, esprimere il nuovo orientamento della vita con il digiuno, la preghiera e l'elemosina) e il suo bisogno di ritrovare continuamente la sua fonte o ciò che le è essenziale.

 

La particolarità cristiana

 

Per cercare ora di indicare ciò che caratterizza il modo propriamente cristiano di meditare sulla conversione, vorrei sottolineare due tratti.

I1 primo è il fatto che l'appello alla conversione si iscrive nella predicazione fondamentale di Gesù, così come la riassume Mc 1,15: "I1 tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo". Ciò significa in primo luogo che per la fede cristiana l’antico messaggio profetico si ripresenta in Gesù. Ma occorre andare più lontano. Nell’annuncio evangelico l'appello alla conversione è accompagnato da un motivo escatologico e apocalittico (i tempi sono giunti a compimento, la presenza del regno di Dio si è attuata) e da una espressione rinnovata della fede (la conversione si apre sulla fede, si prolunga in atto di credere).

A mio avviso il contesto che la conversione assume in tale modo è di grandissima importanza. Convertirsi, secondo il messaggio di Gesù, è rispondere a una sorta di urgenza spirituale, data la prossimità della fine dei tempi. Non si tratta di un pentirsi etico, nemmeno di un "ricentraggio" della fede, ma di una partecipazione a ciò che Gesù annuncia affermando che la fine si avvicina e che si aprono gli ultimi tempi. La conversione è un modo apocalittico di vivere la fedeltà a Dio, senza rinviare la decisione ricreatrice resa possibile da Dio e lasciando alla vita futura una apertura radicale, quella stessa che è implicata dalla fine dei tempi. D'altronde la conversione va di pari passo con la fede, ma una fede novatrice e rinnovata. Convertirsi è credere in un modo nuovo: un "vangelo" è proposto, la fedeltà di Dio ci invita ad una audacia credente della quale non possiamo avere da noi stessi né la conoscenza né le capacità.

Questa cristologia non è il solo tratto originale della conversione così come il cristianesimo la comprende. C'è un secondo elemento, anch’esso presente nella Scrittura cristiana, che deve essere messo in luce. E' un fatto di vocabolario. Il verbo "shuv", voltarsi o tornare indietro, è infatti tradotto nei vangeli in due modi: sia con "epistrephein", il vocabolo greco classico, usato dalla traduzione dei Settanta, sia con "metanoein", una parola che usa Filone, a sua volta, e che significa etimologicamente un superamento della conoscenza, dell'intelligenza o anche dell'interiorità che è in noi. La "metanoia" designa dunque la conversione non però con l'immagine del ritorno verso Dio, un ritorno analogo a quello degli esiliati che ritornano alla terra della loro nascita e della promessa, bensì con un'altra simbologia, quella di una riorganizzazione delle nostre possibilità mentali e spirituali. Che cosa pensare di questa innovazione semantica? A me non dispiace che la conversione possa essere espressa nei due modi che ho esposto, a condizione tuttavia che il secondo non faccia dimenticare il primo. Mi spiego: a condizione cioè che il cambiamento interiore, che è effettivamente una delle componenti del rivolgimento di cui si parla, non cancelli la grande figura tradizionale, quella del ritorno, quando si era lontani, perduti, schiavi o erranti.

 

Il carattere concreto della conversione

 

Dopo aver indicato quale era il radicamento scritturistico della conversione secondo i cristiani, vorrei ora esaminare alcune domande in cui mi pare s’imbatta il cristianesimo contemporaneo, quando ascolta l'appello biblico a ritornare verso Dio e dunque a trasformarsi interiormente. La prima domanda in cui si imbatte conduce, mi sembra, al realismo al quale è chiamata nella fattispecie la fede. Che cosa è dunque "convertirsi", qui e ora, praticamente? Il Medio Evo occidentale pensava che la "metanoia" potesse essere espressa in latino con la parola "paenitentia". Ecco una cosa effettivamente concreta. Fare penitenza non è appunto assumere i mezzi per cambiare il proprio cuore, detto altrimenti iscrivere in se il rivolgimento o il nuovo orientamento che si prende in considerazione? Di fatto non si tratta semplicemente di confessare il proprio peccato, bisogna anche vivere da convertito e dunque invertire molti comportamenti e numerosi atteggiamenti. Il digiuno, la preghiera, l'elemosina, altre pratiche ancora, indicano tradizionalmente come si può esprimere questa trasformazione. Il guaio, tuttavia, è che l'assimilazione della conversione alla penitenza ha avuto un grave inconveniente. Si rischiava di ridurre considerevolmente il campo della conversione, di limitarne lo spazio e le dimensioni. Convertirsi, in effetti, non è soltanto pentirsi, è anche e più profondamente fare ritorno a Dio.

Mi sembra dunque che i cristiani contemporanei, per esempio nel tempo annuale della quaresima, abbiano da rimettere in luce tutte le varie armonie dell'appello che giunge loro. In questo senso si può ritenere che la conversione ha almeno tre dimensioni. La prima è spirituale: è conversione del cuore, metanoia, trasformazione interiore, rinnovamento della fede. In un'epoca come la nostra questo accento spirituale è evidentemente essenziale. E' quello, per esempio, di Taizé o dei movimenti di risveglio, o, ancora, dei gruppi pentecostali e carismatici.

Una seconda dimensione della conversione è etica. E' quella che metteva ben in luce la parola "penitenza", sottolineando la necessita di compiere atti concreti perché il cambiamento di vita non sia una illusione o un sogno idealista. Tuttavia è abbastanza chiaro che queste azioni rimangono in parte simboliche e che, in ogni modo, non bastano a cambiare la vita nel suo insieme, in particolare quella della società. Di qui l'esigenza di una terza dimensione della conversione: come tradurre oggettivamente, là dove lo si vive, il desiderio di ritornare a Dio, per quanto riguarda la giustizia, la verità e la libertà, il rispetto dei poveri e la condivisione con loro. Come ritornare a Dio senza cambiare il nostro rapporto con quelle e quelli che Dio colloca accanto a noi nelle complessità economiche, politiche e culturali della vita comune?

Sono dunque propenso a ritenere che la conversione per i cristiani di questo tempo, consista nel tenere insieme l'aspetto spirituale, la forza etica e l'esigenza sociale di cui il messaggio profetico è caricato. Dio solo può darci l'intenzione e la generosità di una simile integrazione.

 

La conversione come evento della storia individuale

 

Un'altra domanda è indirizzata indubbiamente al cristianesimo attuale. Esso, in effetti, è portato abbastanza spesso a parlare della conversione per designare ciò che vivono persone che scoprono o riscoprono la fede evangelica. Il problema, tuttavia, è di non fermarsi ad uno stupore pieno di gratitudine e di comprendere ciò che Dio vuole dirci attraverso queste trasformazioni misteriose.

Occorre, per questo, distinguere parecchi tipi di esperienze, senza che l'analogia che le avvicina conduca a confonderle. Vi sono dei non credenti che, talora in modo imprevedibile, scoprono nel messaggio e nella presenza di Gesù la verità e la liberazione della loro esistenza. Vi sono anche dei credenti la cui fede era abitudinaria, quasi banale e che scorgono, un giorno, la sua forza viva. E vi sono credenti che avevano preso distanza dalle Chiese e, in certi casi, dalla fede, e che decidono di riprendere il cammino del vangelo, divenendo così quelli che si chiamano oggi dei "ricomincianti".

Qual è il susseguirsi della conversione che si enuncia in questo modo? I credenti assopiti ritornano alle energie originarie della fede: la loro conversione è risveglio o rinascita. I "ricomincianti", per parte loro, fanno ritorno ad una esperienza religiosa più o meno esplicita che ha già avuto posto nella loro vita: essi riseminano la loro storia scrivendo in essa dall'inizio, vale a dire una nuova origine o, più esattamente, una origine riattualizzata. Ma che ne è delle persone non credenti che compiono il passo ed entrano nella fede? In che cosa vi è, per loro, un ritorno a Dio, poiché, apparentemente, esse non l'hanno finora mai frequentato? Se si riflette, il termine "conversione" non è fuori posto per esprimere questo cammino. Infatti diventare credente non è ritornare alla propria origine, sconosciuta ma reale, quella in cui Dio era presente come creatore e come salvatore, senza essere tuttavia riconosciuto?

Sono incline a pensare che queste differenti figure della conversione debbono essere accolte come un fascio nel quale l'appello di Dio indirizzato agli esseri umani manifesta la sua molteplice munificenza. Fare ritorno a Dio è un fatto sempre inatteso e perennemente misterioso. A tal punto che per ciascuna e ciascuno di noi la conversione alla quale siamo chiamati può essere vissuta in solidarietà con ciò che vivono molti esseri nelle nostre comunità religiose come nella vastità del mondo. I1 Dio vivo è anche il Dio delle nostre conversioni indefinitamente modulate.

 

La conversione delle Chiese

 

Vorrei indicare, per finire, un terzo luogo di attenzione per i cristiani contemporanei quando si parla della conversione fra loro e in loro. Si tratta del pentimento delle Chiese per le loro infedeltà nel corso della storia e dei mutamenti talora esigenti che comporta il loro avvenire.

Questa metanoia ecclesiale è difficile, in ogni caso per la Chiesa alla quale io appartengo, la Chiesa cattolica. Questa Chiesa si vuole santa, secondo la giusta parola dell'antico Credo, ed essa ha difficoltà a confessare i suoi limiti e il suo peccato. E tuttavia, come afferma il Vaticano II, essa è "santa insieme e sempre bisognosa di purificazione", ricercando continuamente "la penitenza e il suo rinnovamento" (Lumen gentium, 8).

Deve dunque contemporaneamente rendere grazie a Dio che la fa esistere e la orienta verso di sé e confessare la propria insufficienza che attesta il suo bisogno e il suo desiderio di conversione.

Questa umile confessione diviene tuttavia a poco a poco reale. E, su questo punto, Giovanni Paolo II ha fatto molto per renderla normale e vera. Nel febbraio 1992, sull'isola di Gorea, in prossimità del Senegal, egli riconosceva la complicità di certi cristiani nella tratta dei neri. Nel marzo 1995 nell’enciclica Evangelium Vitae, notava che "la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della verità" (n.70) e, nel maggio di questo stesso anno, dopo aver insistito sul "dialogo della conversione" nell'ecumenismo, dichiarava nell'enciclica Ut unum sint: "Per quello che ne siamo responsabili,... imploro perdono" (n.88). Da parte sua, il gruppo di Dombes indica, nella parte conclusiva di alcuni suoi documenti, delle "proposte in vista della conversione (metanoia) confessionale".

Evidentemente non tutto è stato completamente esplicitato in questo sforzo di confessione e di pentimento della Chiesa cattolica. Se, a partire dal 1992, i vescovi cechi riconoscevano che il cattolicesimo ha collaborato parzialmente con il regime comunista e se, in questa stessa repubblica ceca, il papa ha affermato nel maggio 1995:"A nome di tutti i cattolici, io domando perdono per i torti inflitti ai non cattolici", resta il fatto che in Argentina l'episcopato stenta a riconoscere le compromissioni della Chiesa cattolica con la dittatura militare degli anni 1970. E, d'altronde, si attende sempre il testo romano sull'antisemitismo cristiano, testo promesso nel 1987, ma che tarda ad apparire.

 

La "chance" della conversione

 

Vorrei concludere queste poche riflessioni ponendo l'accento sulla forza spirituale che il termine conversione porta con sé. Convertirsi non è un ritorno regressivo, è la possibilità di ritrovare la propria vocazione. E' la grazia di ascoltare e riascoltare la parola divina che inaugura la nostra vita e che la orienta. Detto altrimenti, il messaggio biblico della "teshuvà" ci volge verso l'avvenire a partire dall'Alleanza che fonda ciò che noi siamo. Ciò che noi saremo, e che non è mai definito in anticipo nel dettaglio, discenderà da ciò che Dio ha voluto essere per noi e di cui ci invita a fare memoria, anche se noi non siamo sempre attenti alla sua voce e alla sua presenza.

Inoltre l'esperienza credente mostra che la conversione ha molti aspetti. Essa si distingue secondo le nostre vocazioni diverse e i momenti della nostra esistenza. Detto questo, è chiaro che essa ha una forma comune. E' sempre, in effetti, un atto di fede E' ugualmente sempre una esperienza quotidiana e, nello stesso tempo, il segno talvolta imprevedibile di certi momenti della nostra storia, personale o collettiva. Ed è anche una umile immaginazione del cuore che conduce ad esaminare come è possibile rispondere, qui e ora, talvolta con difficili messe a punto, all'appello di Dio.

Mi sembra infine del tutto normale sottolineare in questa rivista quanto la conversione susciti come solidarietà tra tutti i credenti che accolgono il suo messaggio. Possano ebrei e cristiani ascoltare insieme, gli uni e gli altri secondo la propria vocazione, ciò che il Dio vivo li invita a vivere nella fede e nella speranza.

 

SUSSIDIO PER UNA LITURGIA DELLA PAROLA

 

“Facci tornare a te e noi ritorneremo” (Lam 5,21)

 

Deuteronomio 30,1-10

 

Quando tutte queste cose che io ti ho poste dinanzi, la benedizione e la maledizione, si saranno realizzate su di te e tu le richiamerai alla tua mente in mezzo a tutte le nazioni, dove il Signore tuo Dio ti avrà scacciato, se ti convertirai al Signore tuo Dio e obbedirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il cuore e con tutta l'anima, secondo quanto oggi ti comando, allora il Signore tuo Dio farà tornare i tuoi deportati, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo da tutti i popoli, in mezzo ai quali il Signore tuo Dio ti aveva disperso. Quand'anche i tuoi esuli fossero all'estremità dei cieli, di là il Signore tuo Dio ti raccoglierà e di là ti riprenderà. Il Signore tuo Dio ti ricondurrà nel paese che i tuoi padri avevano posseduto e tu lo possederai; Egli ti farà felice e ti moltiplicherà più dei tuoi padri.

Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima e viva. Il Signore tuo Dio farà cadere tutte queste imprecazioni sui tuoi nemici e su quanti ti odieranno e perseguiteranno. Tu ti convertirai, obbedirai alla voce del Signore e metterai in pratica tutti questi comandi che oggi ti do. Il Signore tuo Dio ti farà sovrabbondare di beni in ogni lavoro delle tue mani, nel frutto delle tue viscere, nel frutto del tuo bestiame e nel frutto del tuo suolo; perché il Signore gioirà di nuovo per te facendoti felice, come gioiva per i tuoi padri, quando obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge; quando ti sarai convertito al Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima.

 

Salmo 50

 

R. Invocami nel giorno della sventura,

io ti salverò e tu mi darai gloria

 

Parla il Signore, Dio degli dei,

convoca la terra da oriente a occidente.

Da Sion, splendore di bellezza, Dio rifulge.

Viene il nostro Dio e non sta in silenzio;

davanti a lui un fuoco divorante,

intorno a lui si scatena la tempesta. R.

 

Convoca il cielo dall'alto

e la terra al giudizio del suo popolo:

«Davanti a me riunite i miei fedeli,

che hanno sancito con me l'alleanza

offrendo un sacrificio».

Il cielo annunzi la sua giustizia,

Dio è il giudice. R.

 

«Ascolta, popolo mio, voglio parlare,

testimonierò contro di te, Israele:

Io sono Dio, il tuo Dio.

Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici;

i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti.

Non prenderò giovenchi dalla tua casa,

né capri dai tuoi recinti. R.

 

Sono mie tutte le bestie della foresta,

animali a migliaia sui monti.

Conosco tutti gli uccelli del cielo,

è mio ciò che si muove nella campagna.

Se avessi fame, a te non lo direi:

mio è il mondo e quanto contiene. R.

 

Mangerò forse la carne dei tori,

berrò forse il sangue dei capri?

Offri a Dio un sacrificio di lode

e sciogli all'Altissimo i tuoi voti;

invocami nel giorno della sventura:

ti salverò e tu mi darai gloria». R.

 

 

All'empio dice Dio:

«Perché vai ripetendo i miei decreti

e hai sempre in bocca la mia alleanza,

tu che detesti la disciplina

e le mie parole te le getti alle spalle? R.

 

Se vedi un ladro, corri con lui;

e degli adulteri ti fai compagno.

Abbandoni la tua bocca al male

e la tua lingua ordisce inganni. R.

 

Ti siedi, parli contro il tuo fratello,

getti fango contro il figlio di tua madre.

Hai fatto questo e dovrei tacere?

forse credevi ch'io fossi come te!

Ti rimprovero: ti pongo innanzi i tuoi peccati». R.

 

Capite questo voi che dimenticate Dio,

perché non mi adiri e nessuno vi salvi.

Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora,

a chi cammina per la retta via

mostrerò la salvezza di Dio. R.

 

Osea 14,2-10

 

Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: «Togli ogni iniquità: accetta ciò che è bene e ti offriremo il frutto delle nostre labbra. Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, né chiameremo più dio nostro l'opera delle nostre mani, poiché presso di te l'orfano trova misericordia».

Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; esso fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell'olivo e la fragranza del Libano. Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne, famose come il vino del Libano. Efraim, che ha ancora in comune con gl'idoli? Io l'esaudisco e veglio su di lui; io sono come un cipresso sempre verde, grazie a me si trova frutto.

Chi è saggio comprenda queste cose, chi ha intelligenza le comprenda; poiché rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v'inciampano.

 

Salmo 51

 

R. Pietà di me o Dio secondo la tua misericordia

 

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;

nella tua grande bontà cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,

mondami dal mio peccato. R.

 

Riconosco la mia colpa,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto;

perciò sei giusto quando parli,

retto nel tuo giudizio. R.

 

Ecco, nella colpa sono stato generato,

nel peccato mi ha concepito mia madre.

Ma tu vuoi la sincerità del cuore

e nell'intimo m'insegni la sapienza. R.

 

Purificami con issopo e sarò mondo;

lavami e sarò più bianco della neve.

Fammi sentire gioia e letizia,

esulteranno le ossa che hai spezzato. R.

 

Distogli lo sguardo dai miei peccati,

cancella tutte le mie colpe.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo. R.

 

Non respingermi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia di essere salvato,

sostieni in me un animo generoso. R.

 

Insegnerò agli erranti le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno.

Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,

la mia lingua esalterà la tua giustizia. R.

 

Signore, apri le mie labbra

e la mia bocca proclami la tua lode;

poiché non gradisci il sacrificio

e, se offro olocausti, non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,

un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. R.

 

Nel tuo amore fa grazia a Sion,

rialza le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici prescritti,

l'olocausto e l'intera oblazione,

allora immoleranno vittime sopra il tuo altare. R.

 

Matteo 5,1-2;23-26

 

Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

«Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.

Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!».

 

 

 

 

Preghiera dei fedeli

 

Preghiamo perché possiamo convertirci: entrare in dialogo con Dio che ci cerca, con la nostra coscienza che ci chiede di esaminare noi stessi, con gli altri “tu” che ci chiamano. Diciamo insieme:

 

R. Ascoltaci, Signore

 

O Signore, Dio di misericordia, per il fatto che l’antisemitismo abbia trovato posto nella coscienza e nella pratica cristiana, aiutaci a compiere Teshuvà: pentimento, conversione, riconciliazione. Preghiamo. R.

 

O Dio di bontà e di misericordia, convertici perché abbandoniamo in modo radicale e coerente ogni ideologia e ogni espressione che potrebbe portare all’ostilità contro gli ebrei e possiamo diventare amici sinceri del popolo ebraico. Preghiamo. R.

 

O Signore, Dio di misericordia, suscita in noi l’esigenza ineludibile di diffondere e di approfondire, tra le giovani generazioni, cognizioni veritiere sull’ebraismo, la religione, la storia e la cultura ebraica, come pure sullo stato d’Israele. Preghiamo. R.

 

O Dio di bontà e di misericordia, fa’ che la tua chiesa impari nuovamente che proviene da Israele a cui è legata tramite la sua eredità nella fede, nell’etica e nella liturgia. Fa’ che le comunità cristiane ed ebraiche possano coltivare l’amicizia reciproca ed essere segno di riconciliazione in un’Europa oscurata dalla Shoà. Preghiamo. R.

 

 “Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, Signore della pace, Re cui la pace appartiene, di porre la pace sul popolo d’Israele. E la pace si moltiplichi fino a penetrare in tutti quelli che vengono al mondo. E non ci siano più né gelosie né rivalità né motivi di discordia tra gli uomini, ma ci siano solo amore e pace fra tutti, e ognuno conosca l’amore del suo prossimo in quanto il suo prossimo cerca il suo bene, desidera il suo amore e agogna il suo costante successo, al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi per parlare insieme e dirsi l’un l’altro la verità in questo mondo; un mondo che passa come un batter d’occhi, come un’ombra, non come l’ombra di una palma o di un muro, ma come l’ombra di un uccello che vola. Amen”

(Preghiera redatta nel ‘700 da Rabbi Nachman di Bratzlav)

 

SUGGERIMENTI

 

Bibliografia utile per una teologia di base circa i rapporti cristiano-ebraici:

 

- L. SESTIERI, G. CERETI, Le chiese cristiane e l’ebraismo 1947-1982, ed. Marietti, Casale Monferrato 1982;

 

- C. THOMA, Teologia cristiana dell’ebraismo, ed. Marietti, Casale Monferrato 1983;

 

- AA.VV., In dialogo con i “fratelli maggiori”, ed. A.V.E., Roma 1988;

 

- M. PESCE, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, ed. Dehoniane, Bologna 1994;

 

- R. FABRIS, L’olivo buono. Scritti su ebraismo e cristianesimo, ed. Morcelliana, Brescia 1995.

 

- P. STEFANI, Introduzione all’ebraismo, Queriniana, Brescia 1995.

 

A cura della Commissione Diocesana per l’Ecumenismo e il Dialogo,

Piazza Fontana, 2 - Milano

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