lunedì 27 ottobre 2025

L'apostolo Paolo secondo Martin Buber

Martin Buber nasce a Vienna ma, dall’età di tre anni, cresce a Leopoli con i nonni paterni. Dopo il ginnasio studia filosofia a Lipsia, Zurigo e Berlino, per laurearsi infine nella capitale austriaca. A vent’anni aderisce al movimento sionista fondato da Theodor Herzl e alcuni anni dopo scopre il chassidismo[1]. All’età di quarant’anni succede a Franz Rosenzweigh nella direzione della Freie Judische Lehrhaus, una casa di studi ebraici, dove tiene corsi sulla religiosità e sul confronto tra ebraismo e cristianesimo. Alcuni anni dopo pubblica l’opera filosofica Ich und du[2] e inizia a tradurre, con Rosenzweigh, il libro dell’Esodo in tedesco. Ottienuta una cattedra all’università di Francoforte intraprende la traduzione dell’intera Bibbia, arrivando con il suo amico Franz al libro di Isaia, per poi procedere da solo per altri tre anni.

Con l’avvento del nazismo gli viene proibito di insegnare e parlare in pubblico ma, indomito, prosegue clandestinamente nella formazione degli adulti ebrei tedeschi. All’età di sessant’anni, si trasferisce a Gerusalemme, dove lo attende una cattedra di filosofia all’Università ebraica. Mentre contribuisce alla fondazione del movimento Ichud (unità), alla ricerca di un compromesso tra arabi e israeliani, pubblica ad Amsterdam in lingua olandese Het geloof der profeten. De geloofsgeschiedenis van Israel[3]. Nel 1948 riprende la traduzione della Bibbia in tedesco - che terminerà nel 1961 - e pubblica il saggio Zwei Glaubensweisen[4] sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Nell’ultima fase della sua vita pubblica a Gerusalemme alcuni importanti saggi filosofici sul principio dialogico.

Al teologo evangelico Albert Schweitzer, che considerava Paolo di Tarso radicato nell’universo di pensiero ebraico (e non in quello greco), Buber replica in Due tipi di fede che la dottrina di Paolo si basa su quel fenomeno marginale che era il giudaismo ellenistico. In questo saggio Buber distingue il concetto ebraico di emunà da quello greco di pistis (che diverrà poi fides in latino). Il primo concerne sentimenti di fiducia, stabilità, abbandono; il secondo si riferisce alla conoscenza della verità, a un “ritenere per certo”, a una prova/dimostrazione (in greco élenchos). La emunà è fiducia in ciò che, pure se tarda, avverrà; la pistis è decisione per ciò che già esiste anche se non lo si vede.

Per Buber non si rende effettiva la emunà con una decisione presa una volta per tutte, bensì con l’intera vita dell’essere umano, ovvero in ordine a ciò che si sperimenta. Nel mondo d’Israele, nato da patti di alleanza con Dio, manca lo spazio per una decisione per la fede o per l’incredulità, mentre decisiva è la totalità dei rapporti concreti dell’essere umano con Dio, con se stesso e nella sfera mondana a lui assegnata. Al contrario Paolo invita a prendere una decisione, fissando lo sguardo sulle cose invisibili che sono anche eterne (2 Cor 4,18), perché le cose visibili sarebbero momentanee.

Il linguaggio con cui Buber si esprime in Due tipi di fede è quello di un credente appassionato. La presenza di Dio è per lui un fuoco che alimenta l’umana ricerca di senso. Sappiamo dalla sua biografia quanto intensamente Buber si sia misurato con la fede dei profeti. Ebbene secondo lui l’esperienza di Gesù è proprio il frutto della fede dei profeti biblici. Di qui la sua sintonia con la figura del Gesù storico nel contesto dell’ebraismo messianico dell’epoca. Per Buber è più certo che mai che a Gesù spetta un grande posto nella storia della fede d’Israele e che questo posto non può essere definito con nessuna delle categorie usuali. Tuttavia Gesù rifiuta ogni culto rivolto alla sua persona: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21-23; cf. Lc 6,40; Lc 11,27-28). Così Buber sposta la frattura tra cristianesimo e giudaismo da Gesù a Paolo di Tarso e all’evangelista Giovanni. La divisione tra i due tipi di fede avviene nel passaggio dalla Torà alla deificazione, assolutamente estranea all’ebraismo, di una persona a cui si attribuisce valore salvifico. Quello che era un aggettivo (messia ovvero unto) diviene un nome proprio (Cristo). L’appartenenza al popolo ebraico si trasforma nel credere a una verità.

La fede è per Buber vivere nella presenza dell’incondizionato: esperienza comunitaria, fiducia, permanenza. L’appartenenza al popolo di Dio si qualifica per precise coordinate spazio-temporali: una discendenza e una terra. Il super-popolo cristiano si connota invece per libertà, responsabilità, universalità. La salvezza messianica per l’ebraismo ha luogo nella storia, mentre per il cristianesimo è presenza spirituale di Dio. Ciò nonostante egli afferma che l’ebraismo è quell’io chiamato a entrare in dialogo con quel tu che è il cristianesimo: entrambi, ebrei e cristiani, si pongono in relazione con il Tu eterno; la loro fede/religiosità si contrappone alla religione/conformismo. Non si tratta dunque di fondere misticamente ebraismo e cristianesimo, né di costruire un muro di separazione tra ebrei e gentili, quanto piuttosto di dialogare faccia a faccia nella dualità.

Sono numerosi gli esempi che Buber porta per sostenere la sua tesi dei due tipi di fede. Forse il più celebre è quello che riguarda Abramo. Dio nel racconto della Genesi, secondo la tradizione ebraica, si rivela sette volte al primo patriarca. Nella quarta rivelazione, quella centrale, lo conduce di notte fuori dalla tenda e lo pone di fronte al cielo stellato di Canaan. Gli chiede di contare le stelle e aggiunge: “tale sarà la tua discendenza”. A questo punto il narratore biblico annota che Abramo “credette” e Dio “glielo accreditò come giustizia” (15,6). Non era certo la prima volta che Abramo si fidava di Dio, ma questa ulteriore dimostrazione di fiducia fu la prova della sua fede.

Scrive Buber: “un uomo importante come Paolo, che possiamo considerare il vero autore della concezione cristiana della fede, su questo stesso avvenimento fondò la propria presentazione di Abramo come padre e modello del credente (cf Rm 4)”[5]. Buber preferisce tradurre quel “credette” in Dio (ve-he’emin va-Jhwh) con “continuò a perseverare”. Trova lo stesso sostantivo (‘emunah) nel racconto in cui la mano destra di Mosè, sollevata al cielo con il bastone del comando, rimane stabile fino al termine della battaglia di Amalec (Es 17,12). Inoltre considera quel “glielo accreditò come giustizia” (vaiachshevet lo tzedaqa’) un termine dell’agire umano per cui “l’essenza della creatura raggiunge il proprio essere quale era stato inteso al momento della creazione”[6].

Le citazioni di Paolo sono prese dalla Bibbia dei Settanta, che Buber definisce come un testo non semplicemente greco ma veramente ellenizzato, nella cui familiarità l’apostolo dei gentili era cresciuto. Qui, almeno secondo la dottrina paolina sulla fede e la giustificazione, il passo sembra immerso in tutt’altra atmosfera e diviene nel linguaggio forense un’imputazione, una categoria della prassi giuridica in cui somme di denaro vengono considerate come dovute. Secondo Buber si passa dalle altezze dell’altopiano del testo ebraico originale (giusto poiché fiducioso), alle bassure della valle nella traduzione dei Settanta (giustificato poiché ricompensato), per finire sulla cresta di rocce della mistica paolina di un Dio che redime il mondo con il sacrificio del proprio Figlio (giustificato per la fede e [sic!] maledetto per le opere).

Infatti Paolo nella lettera ai Galati, dopo aver scritto che tutti i credenti partecipano alla benedizione conferita ad Abramo, afferma che chi fa le opere della legge sta sotto la maledizione (cf 3,9-10). A sostegno di questa tesi (cf 3,11) cita il profeta Abacuc (2,4) secondo cui “il giusto vivrà della sua fede” (ve-tzadiq be-emunato ichie). Scrive Buber: “evidentemente l’espressione di Abacuc e la frase di Abramo si sono sempre presentate come collegate tra loro alla mente di Paolo, quasi fossero il fatto individuale e la sua enunciazione generale”[7]. Ormai, scrive, “secondo Paolo la legge sarebbe superata dall’avvento di Cristo”[8]. Ma quella di Abacuc è un’interpolazione all’interno di un discorso in cui il profeta parla di un uomo superbo e presuntuoso (cf 2,5), nemico d’Israele, che non conosce limite e ripone la sua fiducia solo in se stesso. Al contrario il confermato vivrà perché si affida a Dio eternamente vivente (cf Sal 73,26). Agli occhi di Buber non c’è nessuna contrapposizione tra la fede e la Torà. Anzi proprio i precetti della Torà sono la modalità ebraica di affidarsi a Dio.

Un ulteriore esempio che Buber porta a sostegno della tesi dei due tipi di fede è la lettera ai Romani dove Paolo afferma che i gentili hanno raggiunto la giustizia mediante la fede e senza le opere. Al contrario mentre Israele, agendo secondo le opere ma senza la fede, non ha raggiunto lo scopo della Torà (cf Rm 9,30-33). Anzi proprio la Torà sarebbe quel sasso che fa inciampare il piede dei figli d’Israele. Per dare forma a questa sua immagine Paolo accosta due versetti in cui il profeta Isaia parla di una pietra d’inciampo (8,14) e di una pietra da fondamenta (28,16). La parola di Dio sarebbe dunque d’inciampo perché Israele l’ha fraintesa e su Cristo si fonderebbe un nuovo edificio che giustifica i credenti in lui e mette fine alla Torà (cf Rm 10,4).

La parola della fede annunciata da Paolo sarebbe dunque vicina alla bocca e al cuore del credente (cf Rm 10,8-9) al contrario della parola di Mosè ritenuta da lui lontana. A sostegno di questa sua tesi Paolo cita un passo del Deuteronomio (30,14) che accenna a una parola molto vicina (chi-qarov elecha haddavar me’od) alla bocca e al cuore (beficha uvilvavecha) di chi l’ascolta. Buber fa notare che Paolo utilizza il detto del Deuteronomio in maniera impropria. Infatti il soggetto della frase è proprio un precetto che Dio prescrive contestualmente (hammitzvà hazzot asher anokhi metzavvecha hajjom) affinché possa essere eseguito (la’asot). Ma l’apostolo dei gentili cita quel passo della Torà omettendone capo e coda. Conclude Buber: “quali singolari sentieri imbocca Paolo quando si dedica alla propaganda missionaria!”[9].

Per Buber il discorso della montagna del vangelo di Matteo è un’esortazione radicale alla pratica della Torà: “Gesù ritiene che la Torà può essere adempiuta e non soltanto nel suo tenore letterale, bensì anche in conformità a quanto originariamente intendeva la rivelazione […] i farisei insegnano sulla base della Scrittura (con tutte le tue forze) che Dio si aspetta che tu adempia la Torà secondo quello che sei e per quello che puoi”[10]. Quando invece Paolo nega la possibilità di adempiere la Torà (cf Gal 3,10) contraddice l’insegnamento di Gesù. Buber ipotizza che ciò derivi dal bisogno di Paolo di non conoscere più Gesù e il suo insegnamento “secondo la carne” (cf 2 Cor 5,16) ovvero “alla maniera umana” dopo la crocifissione.

Per Paolo con la resurrezione di Gesù ha inizio lo svelamento di una misteriosa concezione della storia del cosmo (cf Col 1,26; 1 Cor 2,7-8) che Buber ritiene di carattere essenzialmente gnostico. Gli ebrei dell’epoca credevano nella resurrezione dei morti alla fine dei tempi, ma la Torà non diceva loro nulla sulla resurrezione dei singoli. Viceversa gli dèi misterici dei gentili ellenistici morivano e risorgevano ciclicamente, ma per loro era inaudita la resurrezione in massa dei morti (cf At 17,32). L’impostazione di Paolo incontra il favore di quei gentili ellenizzati per cui la storia del cosmo non è mai veramente cominciata.

Gesù durante il processo (cf Mc 14,62) cita il profeta Daniele (cf 7,13). Secondo Buber in quel momento Gesù si vede raffigurato nel personaggio della visione di Daniele che sta per essere rapito al cielo con l’incarico messianico di portare il mondo a compimento. Tuttavia a partire dal libro di Enoch il personaggio di Daniele viene dotato di una preesistenza celeste. Buber ne conclude: “A me pare che qui abbia avuto inizio, in particolare grazie a Paolo e in seguito specialmente grazie a Giovanni, l’opera di deificazione, che evidentemente o doveva lasciar cadere del tutto, come farà Paolo, quel titolo di figlio dell’uomo, oppure, come farà Giovanni sulle orme dei sinottici, poteva conservarlo solo sulla bocca dello stesso Gesù”[11]. Nelle teologie di Paolo e di Giovanni il Gesù che si proclama messia diviene Dio.

Ad ogni modo Buber riconosce lo sforzo che fa Paolo per mantenere inalterata l’unicità di Dio pur veicolando la più alta idea possibile di Gesù. Se nella lettera ai Filippesi (cf 2,6) Paolo parla di Gesù come di un essere che ha la stessa forma di Dio, se nella prima lettera ai Corinzi (cf 8,6) Paolo afferma che tutto esiste in virtù di Gesù, nella lettera ai Romani (cf 11,36) egli afferma che “da Dio, per mezzo di Dio e per Dio” sono tutte le cose e conclude con un definitivo: “amen”. Secondo Buber la differenza tra le prime due affermazioni e la terza “induce a pensare che nel frattempo Paolo si sia reso conto dell’incombente pericolo di un biteismo e abbia voluto evitarlo”[12].

Quando Paolo si qualifica come antico nemico di Dio, sostiene Buber, non si riferisce al suo passato di persecutore della comunità di Gesù. La collera o l’ira divina (cf Rm 9,22) di cui parla è un concetto greco (heimarméne) di destino ineluttabile determinato dagli spiriti degli elementi e delle stelle. Un concetto che Paolo può aver preso da un certo giudaismo ellenistico popolare. Lo stesso che fa dire a Giuseppe Flavio, proiettando su altri le proprie idee, che i farisei attribuirebbero tutto al destino e a Dio. Piuttosto fu il senso della morte di Gesù che dimostrò a Paolo l’amore di Dio per l’umanità. Scrive Buber a proposito di Paolo: “Era il nemico di un Dio senza amore […] a partire da qui io riesco a capire la strada percorsa da Paolo”[13].

Per Paolo l’unico modo per riconciliarsi con Dio sembra essere l’adesione al Cristo (cf Rm 5,18-19). Nelle sue lettere la conversione raccomandata da Gesù, dai farisei e dai profeti, sembra non trovare posto. Una concezione che Buber fa risalire al quarto libro di Esdra e all’Apocalisse di Baruch. Scrive Buber: “Per Paolo non si dà alcuna immediatezza tra Dio e l’uomo nel tempo della storia, ma solo all’inizio e alla fine; nel tempo intermedio, sull’intero spazio tra Dio e l’uomo si estende il destino, che viene spezzato soltanto da Cristo a favore dei cristiani”. Nessuna immediatezza: non l’azione di entrare per la porta stretta (cf Mt 7,13) ma solo il credere nella porta (cf Gv 10,9), non la preghiera (cf Mt 6,9-13) ma lo Spirito del Risorto (cf Rm 8,26) e la debolezza che è poi la forza di Cristo (cf 2 Cor 12,7-9).

Conclude Buber che il giudaismo farisaico professa la emunà della Torà, la fiducia in Dio così com’è, comunque Dio sia. Per questo motivo esclude due grandi immagini della visione paolina del mondo influenzata dall’Apocalisse di Esdra: il demoniaco che domina il tempo presente e l’era futura inaugurata dalla mediazione di Cristo. Tuttavia proprio a partire da queste differenze Buber ribadisce l’esigenza di un dialogo tra ebrei e cristiani. Nel 1949 scrive: “La crisi del nostro tempo è anche una crisi dei due generi di fede, della emunà e della pìstis[14]. Ma proprio per questo ebraismo e cristianesimo “avrebbero da dirsi l’un l’altro cose che non si sono mai detti e da prestarsi l’un l’altro un aiuto che oggi è appena immaginabile”[15]. In questi settantacinque anni occorre riconoscere che qualcosa ci si è detti, qualcosa si è fatto, ma molto ancora resta da dire e da fare.



[1] Tra le sue opere sull’argomento tradotte in lingua italiana: Le storie di rabbi Nachman, Guanda 1995; La leggenda del Baal Shem (Tov), Gribaudi 2000; I racconti dei Chassidim, Guanda 2021; Confessioni estatiche, Adelphi 2010.

[2] In lingua italiana: Io e tu, Studium 2021.

[3] In italiano: La fede dei profeti, Marietti 2001 (la traduzione del sottotitolo sarebbe: La storia della fede di Israele); tra le sue pubblicazioni anche un saggio in ebraico: Mosè, Marietti 2000.

[4] In italiano: Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo 1999; il saggio venne scritto a Gerusalemme durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49, scatenata in concomitanza con la costituzione formale dello Stato d’Israele.

[5] M. Buber, Due tipi di fede, San Paolo 1999, p. 92.

[6] Op. cit., p. 94.

[7] Op. cit., p. 96.

[8] Op. cit., p. 97.

[9] Op. cit., p. 101.

[10] Op. cit., p. 123.

[11] Op. cit., p. 152.

[12] Op. cit., p. 171.

[13] Op. cit., p. 175.

[14] Op. cit., p. 203.

[15] Op. cit., p. 206. 

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