martedì 26 marzo 2024

La Torah: una lettura tradizionale. Appunti di un incontro con rav Alfonso Arbib


Di fronte a un testo biblico, non aspettatevi da parte ebraica – esistono circa cinquemila commenti alla Torah – una trattazione sul tema del brano, ma piuttosto la ricerca di ciò che è difficile in quel testo. Le domande sono fondamentali, ma lo sono anche le risposte, spesso anche tante risposte alla stessa domanda, non sempre soddisfacenti: domande e risposte compongono il Talmud.

La Mishnà è un primo commento alla Torah con obiettivi giuridici (ricavarne dei precetti): il commento alla Mishnà sono domande, confronti, risposte, discussioni che a volte possono anche condurre a un nulla di fatto (teiku = pareggio, nello sport). Rashì commenta il Talmud, altri commentano Rashì, la Toseftà contiene le obiezioni a Rashi, la discussione è infinita: le risposte di Abravanel sono condizionate dalla sua vita, Soloveitchik cinque anni dopo risponde in modo diverso alle stesse domande.

La Aggadà di Pesach ha aggiunte medievali e altre dopo la Shoah, ma strutturalmente comincia dalle domande, crea il buio per uscire verso la luce: le domande individuano ciò che è rilevante per il pubblico (esistono concetti profondi ma irrilevanti). D’altro canto “a causa dei molti alberi non vedo il bosco”: alcune domande conducono lontano dal significato del testo.

“Questa è la discendenza di Noach, uomo giusto nella sua generazione” (parashà Noach): Noè è tzaddiq (Mosè no). Perché “nella sua generazione”? Perché non solo “giusto”? Risposta: se fosse vissuto in una generazione migliore sarebbe stato migliore. Altra risposta (davar acher): se fosse vissuto nella generazione di Abramo sarebbe stato mediocre. Per amore delle domande, alla ricerca di un commento originale, si può tradire il testo: Noach è un giusto (ritorno al testo). Attenzione: “non ti innamorare del pilpul (pepe)” ossia della polemica. L’ebraismo polacco ha esagerato ed è nato un movimento anti-pilpul.

“Chet Adam rishon”, il peccato del primo uomo (Genesi 3), è un paradigma del peccato: “del frutto dell’albero che è in mezzo al campo, albero della conoscenza del bene/male, non mangerai”. Il serpente: mangiandone “voi sarete come déi” (Erich Fromm). Non è una mela (male/malum in greco). Quale peccato? Quale conseguenza? L’uomo ora distingue tra bene e male? Rambam: inaccettabile. L’uomo non era capace di distinguere? Non era intelligente? Midrash (indagine): nessun tipo di conoscenza particolare è stata acquisita.

Adamo, Eva e il serpente poi parlano di “albero che è in mezzo al campo”, uno dei tanti, il nome è stato dato a posteriori perché ha reso consapevoli del peccato (male, morte, sofferenza). Dunque? Non siamo padroni del mondo, abbiamo dei limiti, qualcosa ci è vietato. Puoi mangiare ma non tutto: il mondo non è tuo. Il peccato è rifiutare di avere dei limiti. Pur associato a Dio nella creazione, l’uomo ha un potenziale (creativo ma anche) distruttivo straordinario, ha il compito di civilizzare il mondo per sei giorni ma il settimo cessa (shabbat) da ogni attività. Nimrod: “io sono il creatore del mondo!” (midrash).

Altra interpretazione di Rav Chajim di Volodzic (Vilna, Lituania) – ebraismo post talmudico – discepolo di Ga’on di Vilna (forsa da Maimonide o forse più antica): “prima del peccato nessuna libertà di scelta”. Ci sono vari tipi di intelligenza: hokhmà (sapienza), binà (intelligenza), da’at (conoscenza). Due persone stanno parlando: ascolto e capisco entrambi (hokhmà), traggo delle conseguenze deduttive tipo “tra poco litigano” (binà), faccio sintesi di tutto e intervengo (da’at, termine che indica unione, usato anche per i rapporti sessuali). Rav Chajim: prima del peccato la conoscenza era profonda, l’uomo sapeva distinguere in modo netto (chiaro), senza libertà di scelta; verità/menzogna diventa ora bene/male, meno definitivi, un miscuglio. “Non c’è giusto sulla terra che non pecchi” (Qoelet). Siamo tutti peccatori? Banale. Nel momento in cui fai il bene pecchi: tutto è mescolato. Mangio, assimilo, mescolo. La conoscenza è oscura.

“Ama il prossimo tuo come te stesso” (Levitico 19). Problemi: è possibile comandare un sentimento? Ama, temi, credi (Dio). È applicabile a un perfetto sconosciuto? (Un ubriaco insegna al Baal Shem Tov che non può amarlo se non lo conosce). Grammatica: manca l’accusativo (et) e al suo posto c’è “al/per” (le). Nel trattato Shabbat del Talmud: “insegnami la Torà mentre sto su un piede solo”. Shammai lo spinge via con un regolo. Hillel: “non fare agli altri ciò che per te è odioso”. Tutta la Torah: “và e studia”. Complemento di termine: “agli altri”. Azione (fare) e non sentimento (amare). Sembra riduttivo ma non lo è affato. Rav Dessler: “è la strada per andare all’amore”.

Occuparsi del prossimo: fare del bene per amare e non amare e quindi fare del bene. Ben Azzaj: “amare non è il principio fondamentale”. Inoltre “come te stesso”: “se disprezzo me stesso (condizione patologica ma reale) posso disprezzare anche il prossimo”? Principio fondamentale è “elle toledot Adam” ossia “queste le generazioni di Adamo” (Genesi 2): non disprezzare l’immagine di Dio. Immagine è libertà di scelta e quindi diversità. Cura il prossimo “che è come te” (non sono alieni), necessita d’amore, e anche lo straniero è un essere umano. Non “penso dunque sono” ossia il “cogito ergo sum” di Cartesio, ma sono responsabile e quindi “sono”.

mercoledì 20 marzo 2024

Pregiudizi e pace

 


Io sono per la pace ma quando ne parlo essi sono per la guerra (Salmo 120,7)

Gesti di pace nascono dalla vita di persone che coltivano atteggiamenti di pace. Sono frutto della mente e del cuore di operatori di pace (Matteo 5,9). Sono possibili quando si apprezza la dimensione comunitaria della vita, così da percepire le conseguenze che certi eventi hanno sul mondo nel suo insieme. Gesti di pace creano una cultura di pace.

Sessantun’anni fa l’enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963) ha saputo parlare di pace a un mondo diviso dalla cortina di ferro, proporre il bene comune universale, sollecitare processi di verità e riconciliazione. A questo tendeva la Giornata di preghiera per la pace di Assisi (24 gennaio 2002).

La regola d’oro presente in tutte le religioni - “Non fare agli altri quanto non vorresti fosse fatto a te” - tiene conto sia della sfera del desiderio sia dell’esistenza dell’altro. Va ben oltre il motto secondo cui la libertà di un individuo finisce dove inizia quella altrui. Quest'ultimo segue la logica economica della concorrenza, di un conflitto di interessi tra motivazioni individuali. La regola d’oro attinge al patrimonio spirituale di ciascuna religione e va oltre un'etica generale.

Nelle relazioni interreligiose, al dialogo delle opere, degli scambi teologici e delle esperienze religiose, si antepone il dialogo della vita (Dialogo e missione, 1984; Dialogo e annuncio, 1991). Ciò accade quando le persone vivono sentimenti di apertura e di buon vicinato, condividono gioie e dolori, problemi e preoccupazioni. La fede non dovrebbe essere uno spartiacque tra gli individui. Dove vi sono legami umani saldi e profondi, Dio è presente nel suo nascondersi.

“Lotto per la verità e posso anche credere di aver trovato la verità nella mia religione. Ma non sono il solo cercatore della verità. Se sono umile nella mia ricerca - cioè onesto -, non solo proverò rispetto per la ricerca degli altri, ma persino mi unirò a loro - non solo perché quattro occhi vedono meglio di due, ma per un motivo più profondo: gli altri (...) (sono) fonti di conoscenza. L’uomo non è solo un oggetto (...) ma anche un microcosmo e un mikrothéos, (...) un tempio dello Spirito Santo” (Raimon Panikkar).

Nella ricerca della verità ci apriamo al cambiamento degli inevitabili pregiudizi di cui siamo portatori.

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

  LE BEATITUDINI (PREMESSA ALLE SUPERTESI) Il rotolo di Qumran 4Q525 2 II, 1-6 ha 9 beatitudini, di cui solo le ultime 5 sono conserva...