Un dialogo è un colloquio che si svolge tra due o più persone. A volte il dialogo non ha fini particolari se non una migliore conoscenza reciproca. Quando si sposta su un piano lavorativo, sociale, politico, il dialogo acquisisce l’obiettivo di un accordo o di un’intesa. In ogni caso si tratta di una prassi, di un evento in fieri, di una notizia più da giornale che da libro. Una regola anglosassone indica in cinque punti fondamentali la modalità per dare forma giornalistica a una notizia e per trasmetterla ai lettori: chi (who), cosa (what), dove (where), quando (when) e perché (why). A questi è bene aggiungere un ulteriore punto che spieghi come (how) il dialogo sia accaduto e continui ad accadere.
Chi
Ebrei e cristiani che dialogano sono chierici e laici, rabbini e non, donne e uomini, di tutte le estrazioni sociali, da tutte le latitudini. Spesso questi dialoghi sono essenziali per la convivenza familiare e sociale, ma non lasciano traccia, se non in qualche romanzo o autobiografia. In questa accezione molto ampia di dialogo c’è spazio per tutto quanto avviene sulla faccia della terra. Il dialogo va inteso innanzitutto così. Anche il dialogo specialistico non deve mai dimenticare di essere espressione particolare di un fenomeno universale e, anzi, di trarre proprio da qui la sua linfa vitale e la sua ragion d’essere.
Del resto anche il dialogo specialistico, teso al raggiungimento di un accordo o quantomeno a una chiarificazione delle posizioni e delle categorie di pensiero utilizzate, è difficilmente definibile e confinabile in modo preciso. Sull’esempio del teologo protestante Ralf Rendtorff in Germania, il cattolico Giovanni Cereti e l’ebrea Lea Sestieri hanno raccolto in un volume alcune dichiarazioni di dialogo tra ebrei e cristiani nel periodo compreso tra il 1945 e il 1985. Ne sono risultate 166 dichiarazioni cristiane, di cui 85 cattoliche e 81 protestanti, 8 dichiarazioni ebraiche e 12 comuni. Gli interlocutori di parte cattolica sono in particolare la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, espressione del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e poi papi, concili, conferenze episcopali e sinodi diocesani. Da parte protestante si sono espressi il Consiglio ecumenico delle chiese e singole comunità locali. Gli interlocutori di parte ebraica sono anzitutto l’International Jewish Committee for Interreligious Consultations (IJCIC), organismo che riunisce associazioni laicali come il Bené Berit, il World Jewish Congress (WJC), le principali congregazioni ebraiche americane e il Committee for Interreligious Contacts in Israele (CICI), e quindi il Catholic-Jewish Liaison Committee (CJLC), sua emanazione, e in generale unioni di rabbini a livelli continentale, nazionale o locale. Il protagonista delle dichiarazioni comuni è l’Intemational Council of Chiistians and Jews (ICCJ) con sede presso la Martin Buber House a Heppenheim in Germania.
Cosa
Ebrei e cristiani discutono di tutto. Sarebbe pretenzioso anche solo un indice delle principali questioni affrontate. Così come sarebbe fuorviante pensare che merita l’appellativo di dialogo la sola attività diplomatica. Ecco quanto scrisse una dozzina di armi fa il giudaista Paolo De Benedetti a proposito dell’accordo tra gli Stati Vaticano e d’Israele: “Mi pare innegabile che le motivazioni (dell’accordo), specie da parte vaticana, siano precisamente: a) non essere tagliati fuori dalle trattative israelo-palestinesi e dai loro effetti sulle situazioni concrete, in modo da b) guadagnare tutto il guadagnabile in questioni come: proprietà di istituzioni e luoghi santi, esenzioni fiscali, diritti e privilegi vari, c) approfittare di un momento in cui è meno temibile la reazione degli stati arabi. Non si spiega altrimenti che ciò avvenga dopo 46 anni di dinieghi alle ripetute (e fin troppo insistite) richieste israeliane... Vedo con un certo timore la ricaduta di questo accordo: il Vaticano non è la Chiesa, Israele non è l’ebraismo” (A proposito dell’accordo Vaticano-Israele, SeFeR n. 65/1994).
Ebrei e cristiani discutono della parola di Dio. La Bibbia è un po’ la carta costituzionale della relazione tra ebrei e cristiani. Non è tuttavia corretto parlare di una Bibbia. La Bibbia ebraica è diversa da quella cristiana e la Bibbia cattolica non coincide con quella protestante. Anche dire che tutte queste Bibbie hanno in comune l’Antico Testamento cristiano è inesatto per numero e disposizione dei libri. Inoltre l’interpretazione non è identica. Si prenda come esempio i canti del servo del Signore del profeta Isaia. Nel secondo canto Dio dice “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria” (Isaia 49,1-6). Qui il servo di Dio è il popolo d’Israele. Nel quarto canto (Isaia 53, 7-10), proclamato nella liturgia cattolica del venerdì santo, il servo è Gesù. Come conciliare queste due differenti interpretazioni della stessa Scrittura? Il teologo Bruno Forte, in occasione dell’Assemblea ecumenica europea di Graz (Austria) nel 1997, ha proposto un passo biblico. Gli esploratori inviati da Mosè nel paese di Canaan tornarono con un grappolo d’uva talmente grande da dover essere portato su una stanga da due persone (Numeri 13,21-23). Secondo una metafora patristica quel grappolo pendente dal legno è Gesù appeso alla croce e i due portatori sono la Chiesa e Israele che camminano insieme verso la stessa meta. C’è tuttavia una differenza. Israele precede e ha di fronte l’orizzonte aperto. La Chiesa segue e, pur guardando allo stesso orizzonte, lo fa attraverso il grappolo appeso, il legno dell’asta e chi precede. L’appeso è Gesù crocefisso, l’asta è la croce e chi precede è il popolo d’Israele come fonte della Bibbia ebraica. Come tutte le immagini, anche questa metafora presenta qualche problema, e tuttavia fa pensare.
Sul tema del dialogo biblico si è espresso il documento II popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana redatto dalla Pontificia commissione biblica (Città del Vaticano, 2001). Il testo precisa che “la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra” (n. 22). I cristiani non leggono la Bibbia come gli ebrei perché ciò implica l’accettazione di tutti i presupposti del giudaismo che escludono la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Tuttavia possono leggere la Bibbia con gli ebrei perché ciò è fonte di arricchimento della fede cristiana. Già un precedente documento della stessa Commissione (L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993) si era espresso con chiarezza su questo punto affermando che vari procedimenti esegetici ebraici si ritrovano nella Bibbia e nella Tradizione (cf p. 48).
Ebrei e cristiani discutono delle rispettive comunità di appartenenza. Per i cristiani la relazione tra Chiesa e Israele si inscrive nel quadro della teologia delle religioni. Oggi si ricorre spesso all’espressione “semi del Verbo” (lagoi spermatikoi) che risale al martire Giustino e risente di dottrine stoiche e medio-platoniche. Il Logos divino, cioè la Parola di Dio fatta persona in Gesù Cristo, depone in ogni uomo i suoi semi e diviene perciò Logos spermatikos (Verbo inseminatore). Il logos umano partecipa dunque del Verbo divino e, come tale, può giungere alla conoscenza delle verità fondamentali. In altri termini, in ogni uomo brilla un raggio di verità, il cui fondamento si trova nel Verbo di Dio, cioè nel Figlio che sta presso il Padre. Ma nell’ebraismo c’è di più perché il cristianesimo nasce come movimento ebraico. Solo come conseguenza del cosiddetto concilio di Gerusalemme la Chiesa e Israele prendono strade diverse. La Bibbia racconta di come gli apostoli decisero che per diventare cristiani non occorreva convertirsi previamente all’ebraismo (Atti 15,1- 29). La relazione che la Chiesa intrattiene con Israele non è paragonabile a nessun’altra. L’apostolo Paolo afferma che gli ebrei “possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi” e che “da essi proviene Cristo secondo la carne” (Romani 9,1-5). Per questo il cristiano sa che Israele è la sua radice e non ha nulla di cui vantarsi. Paolo scrive: “sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te” (Romani 11,16-18). Alla relazione tra chiese cristiane e popolo d’Israele è dedicato il volume Secondo le Scritture a cura di Gianfranco Bottoni e Luigi Nason. Il saggio di Diego Bottoni, che discute la pertinenza della categoria di popolo di Dio applicato alla Chiesa, si conclude con questa sorta di regola ermeneutica: “Nel modo di intendere l’espressione popolo di Dio, quando la si trovi adoperata per designare la Chiesa, sarebbe bene attenersi al senso aperto, vario e complesso che popolo di Dio assume nei testi liturgici e in particolare nell’uso liturgico dei Salmi, dove il riferimento primo è sempre a Israele; e la Chiesa, che pure in quella espressione si riconosce, è consapevole di condividerla con Israele, nell’attesa che il disegno del Signore si compia sull’unico suo popolo” (Gianfranco Bottoni - Luigi Nason, Secondo le Scritture. Chiese cristiane e popolo di Dio, EDB, Bologna 2002).
Ebrei e cristiani discutono anche di Gesù di Nazareth, che per i cristiani è il Cristo, il messia atteso da Israele. Così nel canto del Magnificat la madre che porta in grembo Gesù dice che Dio “ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia” (Luca 1,46-55). Così nel Nunc dimittis il saggio Simeone dice a Dio che Gesù è “luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2,25-32). Lo schema, tuttavia, non è binario: promessa-compimento. Gesù non chiude le promesse di Dio a Israele. Lo schema è ternario: promessa-attuazione-compimento. Gesù attua le promesse nell’attesa del giorno in cui Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Apocalisse 21,1-12).
La religione di Gesù l’ebreo (Cittadella, Assisi 2002) è l’opera conclusiva, pubblicata a Londra nel 1993, di una trilogia che Geza Vermes, studioso del giudaismo rabbinico e dei manoscritti di Qumran, ha aperto nel 1973 con Jesus the Jew e proseguito nel 1983 con Jesus and the World of Judaism. Anzitutto il Gesù descritto da Vermes è un maestro carismatico di umili origini galilee, un sapiente consapevole della sua missione tra la gente semplice, che trae la sua autorità dalla capacità di operare guarigioni e non ricerca titoli da profeta. Qualifiche quali Messia o Figlio di Dio, inteso in senso cristologico, sono attribuzioni tarde del cristianesimo. La religione di Gesù l’ebreo è improntata sulla parola di Dio ed è profondamente escatologica. Il Dio di Gesù l’ebreo è un padre e la Torah è per Gesù la parola di Dio da osservare e nello stesso tempo da orientare a una finalità ultima che non è giuridica ma etico-religiosa. Bastano queste poche note per comprendere come il dialogo su questo punto è quanto mai aperto e complesso.
Dove
Ebrei e cristiani dialogano dovunque, ma particolarmente in America, Europa e, giocoforza, Israele. Ecco alcuni esempi di dialoghi recenti. Di particolare rilievo risultano quelli che coinvolgono le chiese ortodosse orientali in quanto, come si è già avuto modo di dire, la chiesa cattolica e quelle protestanti hanno già svolto un discreto lavoro in questo campo.
Il 12 agosto 2003 il Consiglio nazionale della sinagoghe (NCS) e il Comitato dei vescovi per gli affari ecumenici e interreligiosi (BCEIA) degli Stati Uniti d’America hanno redatto separatamente e pubblicato contemporaneamente alcune interessanti Riflessioni su alleanza e missione (cf II Regno, n. 19/2002). I cattolici riconoscono il valore del giudaismo rabbinico e rivedono la loro missione verso gli ebrei. Le parole del card. Walter Kasper, presidente della pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, esplicitano l’affermazione: “Il termine missione, nel suo significato proprio, si riferisce alla conversione dai falsi dei e idoli al vero e unico Dio... Pertanto, il temine missione, nel suo senso stretto, non può essere usato riguardo agli ebrei, i quali credono nel vero e unico Dio... Esiste un dialogo, mentre non può esistere alcuna organizzazione missionaria cattolica per gli ebrei”.
Gli ebrei ripensano al mandato di essere luce per le genti e individuano una missione comune per ebrei e gentili. La riflessione si articola su una triplice missione: alleanza, testimonianza e umanità. La prima missione è tutta interna all’ebraismo: “Gli ebrei sono i discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, l’incarnazione fisica dell’alleanza di Dio con questi avi... un popolo fisico chiamato a vivere in una relazione speciale con Dio... con riconoscimenti per l’osservanza del patto, castighi per il suo tradimento”. Questa “sociologia teologica mette a disagio la maggior parte degli ebrei” che per preservare la propria identità instillano “l’orrore per i matrimoni misti” e “la passione per lo studio della Torah”. La seconda missione è la testimonianza al mondo: “La grande speranza degli ebrei è la loro redenzione e la ricostruzione del loro stato nazionale”. Questo intendeva il profeta Isaia parlando di Israele come luce delle nazioni: “Dio vuole che le nazioni vedano la redenzione di Israele e ne siano impressionate”. La terza missione è quella di tutta l’umanità: “è un errore essere come Giona e pensare che Dio si interessi solo agli ebrei... dell’uomo sofferente della Scrittura, Giobbe, non si dice né si lascia pensare in alcun modo che sia ebreo... tutti sono il popolo di Dio”. I sette precetti di Noè (cf Sanhedrin 56) e il pensiero di Maimonide secondo cui “i pii di tutte le nazioni del mondo hanno un posto nel mondo futuro” (Mishneh Torah 3,5) conducono ad affermare che il “tikkun ha-olam, il perfezionamento o la restaurazione del mondo, è una missione comune degli ebrei e di tutta l’umanità”.
La dichiarazione statunitense si chiude con l’affermazione che l’unica fede nella redenzione del mondo, comune a ebrei e cristiani, ha già prodotto molte opere e molte altre ne produrrà: “Abbiamo marciato insieme per i diritti civili; abbiamo sostenuto la causa degli operai e dei braccianti, abbiamo presentato al nostro governo petizioni perché rispondesse ai bisogni dei poveri e dei senzatetto e abbiamo sollecitato il nostro capo di stato a perseguire il disarmo nucleare”. La conclusione è affidata al Talmud: “Bisogna provvedere ai bisogni del gentile povero insieme a quelli dell’ebreo povero. Bisogna visitare l’ammalato gentile come si visita l’ammalato ebreo. Bisogna prendersi cura della sepoltura di un gentile, proprio come bisogna prendersi cura della sepoltura di un ebreo. (Questi obblighi sono universali) perché queste sono le vie della pace” (Ghittin 61 a).
Dal 27 al 29 maggio 2003 si è svolto a Tessalonica (Salonicco) il quinto incontro accademico tra giudaismo e cristianesimo ortodosso sul tema Fedeltà alle fonti: il nostro comune impegno per pace e giustizia. L’importanza dell’iniziativa è attestata dalla partecipazione del Patriarca ecumenico delle Chiese ortodosse Bartolomeo I. Alcune affermazioni del comunicato finale dell’incontro sono degne di nota: resistenza di fonti comuni non intaccano le rispettive peculiarità; l’antisemitismo è anticristiano; dalle fonti spirituali cristiane ed ebraiche è possibile trarre energie per promuovere la pace, la giustizia sociale e i diritti umani. L’incontro di Tessalonica è stato promosso dall’ufficio del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli (Istanbul) presso l’Unione europea, diretto dal metropolita Emmanuel, e dalla DCIC di New York, co-presieduta dai rabbini Joel Meyers e Israel Singer, quest’ultimo presidente del WJC. All’incontro erano presenti oltre 60 delegati dal mondo intero. Tra gli osservatori presenti spiccavano quelli del Vaticano e del Consiglio mondiale delle chiese.
Non è tutto. Per la prima volta nella storia il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha canonizzato persone che hanno vissuto a Iungo in Europa occidentale. Alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2004) il Santo Sinodo ha canonizzato Elisaveta Pilenko (1891-1945), meglio nota come mat’ Marija, e alcuni suoi compagni tra cui il figlio Jurij. Un comunicato stampa li definisce “personalità che hanno segnato la storia spirituale dell’emigrazione russa in Francia”. Il Patriarcato di Mosca non ha preso l’iniziativa perché le parrocchie di tradizione russa in Europa occidentale sono sotto la giurisdizione di Costantinopoli. Il patriarca ecumenico Bartolomeo I ha fissato la commemorazione liturgica dei nuovi santi alla festa del profeta Elia (20 luglio).
La testimonianza di mat’ Marija è certamente profetica. Nasce in una famiglia benestante sotto lo zar Nicola II. Si sposa giovanissima, frequenta l’ambiente letterario e pubblica poesie. Allo scoppio della rivoluzione diventa sindaco di una cittadina sul mar Nero. Viene condannata a morte per collaborazione con i bolscevichi e graziata dal suo futuro marito. Emigra in Francia con i suoi tre figli e all’attività letteraria affianca l’impero sociale. Dopo il secondo divorzio veste l’abito monacale e assiste gli emigrati russi in tutta la Francia. Quando i nazisti occupano Parigi prende parte alla resistenza e protegge gli ebrei. Viene arrestata e deportata a Ravensbruck dove muore in una camera a gas il venerdì santo del 1945 a 54 anni. Marija fu in quel pugno di ortodossi russi che seppe vedere Gesù perseguitato negli ebrei sofferenti. Hélène, figlia di padre Dimitrij Klépinin, sostiene che l’opera di mat’ Marija per gli ebrei ebbe un fondamento teologico. Nina Kauchtschischwili, autrice dell’unica sua biografia in italiano che raccoglie anche suoi scritti (Mat’ Marija. Il cammino di una monaca, Qiqajon, Bose 1997), lo esclude. Lo Stato d’Israele ha proclamato mat’ Marija e padre Klépinin “giusti tra le nazioni” e i loro nomi sono iscritti nel memoriale di Yad va-Shem a Gerusalemme. La loro canonizzazione è una conferma delle relazioni tra ebrei e cristiani ortodossi.
Quando si spinge ad azioni come quelle evocate dai documenti statunitensi e a testimonianze come quella di mat’ Marija il dialogo, dovunque si svolga, non ha bisogno di ulteriori commenti.
Quando
Ebrei e cristiani hanno cominciato a dialogare serenamente tra loro solo dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah. In epoca medioevale le uniche forme di comunicazione tra loro erano le dispute teologiche spesso volute dai cristiani e comunque tese alla capitolazione dell’avversario. Un notevole contributo alla nuova epoca di dialogo è venuto nel XIX-XX secolo dall’elaborazione di un pensiero dialogico da parte di filosofi ebrei come Franz Rosenzweigh e Martin Buber.
Il primo dialogo significativo tra ebrei e cristiani avvenne in occasione della Conferenza internazionale contro l’antisemitismo di Seelisberg (Svizzera) del 1947. Un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di paesi, furono coordinati ed ispirati dallo storico francese Jules Isaac e dal gran rabbino Kaplan. In quell'occasione venne anche fondato l'ICCJ (International Council of Christians and Jews). Di seguito il testo in dieci punti del documento conclusivo: “1. Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell'Antico come nel Nuovo Testamento. 2. Ricordare che Gesù è nato da ma madre ebrea, della stirpe di David e del popolo d'Israele, e che il suo amore eterno e il suo perdono abbracciano il suo popolo e il mondo intero. 3. Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, e i primi martiri, erano ebrei. 4. Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell'amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna. 5. Evitare di sminuire l'ebraismo biblico e postbiblico nell'intento di esaltare il cristianesimo. 6. Evitare di usare il termine giudei nel senso esclusivo di nemici di Gesù o la locuzione nemici di Gesù per designare il popolo ebraico nel suo insieme. 7. Evitare di presentare la passione in modo che l'odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi. Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsibilità in cui essi incorrono nel presentare il vangelo e sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro bambini o uditori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l'orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi. 8. Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura e il grido della folla eccitata; ‘che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli’, senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno’. 9. Evitare di dare credito all'empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a m destino di sofferenza. 10. Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla Chiesa”.
Una pietra miliare per il dialogo fu certo la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II dell’ottobre 1965. Di seguito alcune frasi del punto n. 4 del testo sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti... Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo... Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo... La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque...”.
Ebrei e cristiani non dimenticano che ad Auschwitz sei milioni di ebrei sono morti per mano di criminali che si professavano cristiani. E teologo cattolico Johann Baptist Metz afferma: “Noi cristiani non possiamo ritornare indietro oltre Auschwitz, e da Auschwitz, a ben vedere le cose, non passiamo mai soli ma sempre con le sue vittime. Stanno qui, a mio avviso, le radici dell’ecumenismo giudaico-cristiano” (J.B. Metz, Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981). Tenere fisso lo sguardo su Auschwitz è un dovere di ogni cristiano. Il documento pontificio Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà richiama che, accanto all’assistenza che molti cristiani offrirono agli ebrei perseguitati dal nazismo, “la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo”.
Perché
Ebrei e cristiani dialogano per motivi differenti. Dopo quasi due millenni di dispute teologiche è giunto da meno di un secolo il momento del dialogo. Le dispute medievali presupponevano l’immutabilità della tradizione cristiana e imponevano la conversione dei singoli ebrei al cristianesimo. II dialogo presuppone il desiderio di conversione dei cuori all’unico Dio e mette in discussione la necessità di un passaggio dall’ebraismo al cristianesimo e viceversa.
La figura di Giovanni Paolo II è stata determinante nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Papa Wojtyla ha affermato che l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele “non è mai stata revocata” (17 novembre 1980) e che “ebraismo e cristianesimo sono legati a livello stesso della loro identità” (12 marzo 1979). Un documento cattolico del 1985 dice che “Gesù è ebreo e lo è per sempre” (Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica. Sussidi per una corretta presentazione, 1985). Riconoscere che Gesù è ebreo e che la Chiesa ha origini ebraiche, perché Maria e gli apostoli erano ebrei, ha delle conseguenze sulla dottrina, sulla spiritualità, sulla liturgia e sulla missione di tutto il cristianesimo. Per questo Giovanni Paolo II ha detto agli ebrei; “voi siete i nostri fratelli maggiori” (13 aprile 1986).
Ebrei e cristiani oggi dialogano per una migliore comprensione reciproca. Gli ebrei hanno a cuore in particolare l’assoluta parità dei dialoganti. I cristiani mirano a una maggiore autocomprensione. Obiettivi differenti che non confliggono tra loro.
Come
Il dialogo di ebrei e cristiani si presta a qualche critica. La principale accusa, mossa da più parti, è che l’attuale dialogo sia una forma di politica religiosa che ha ben poco ascolto alla base. A livello psicologico, peraltro, la polarità tra ebrei/vittime e cristiani/persecutori non ne favorisce la diffusione. Proprio per non dimenticare il passato è bene ricordare l’intenso confronto spirituale, religioso, culturale e sociale tra ebrei e cristiani in alcuni momenti storici. Infine il dialogo non deve far dimenticare alle parti in causa l’esigenza di una messianica “luce dei popoli” (Isaia 42,6; 49,6). Ebrei e cristiani devono operare nel mondo con uno spirito di servizio all’umanità intera. Quale migliore testimonianza dell’unico Dio in cui credono?