domenica 26 giugno 2005

Ebrei e cristiani in dialogo (7/7)


Perché

Ebrei e cristiani dialogano per motivi differenti. Dopo quasi due millenni di dispute teologiche è giunto da meno di un secolo il momento del dialogo. Le dispute medievali presupponevano l’immutabilità della tradizione cristiana e imponevano la conversione dei singoli ebrei al cristianesimo. II dialogo presuppone il desiderio di conversione dei cuori all’unico Dio e mette in discussione la necessità di un passaggio dall’ebraismo al cristianesimo e viceversa.

La figura di Giovanni Paolo II è stata determinante nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Papa Wojtyla ha affermato che l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele “non è mai stata revocata” (17 novembre 1980) e che “ebraismo e cristianesimo sono legati a livello stesso della loro identità” (12 marzo 1979). Un documento cattolico del 1985 dice che “Gesù è ebreo e lo è per sempre” (Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica. Sussidi per una corretta presentazione, 1985). Riconoscere che Gesù è ebreo e che la Chiesa ha origini ebraiche, perché Maria e gli apostoli erano ebrei, ha delle conseguenze sulla dottrina, sulla spiritualità, sulla liturgia e sulla missione di tutto il cristianesimo. Per questo Giovanni Paolo II ha detto agli ebrei; “voi siete i nostri fratelli maggiori” (13 aprile 1986).

Ebrei e cristiani oggi dialogano per una migliore comprensione reciproca. Gli ebrei hanno a cuore in particolare l’assoluta parità dei dialoganti. I cristiani mirano a una maggiore autocomprensione. Obiettivi differenti che non confliggono tra loro.

Come

Il dialogo di ebrei e cristiani si presta a qualche critica. La principale accusa, mossa da più parti, è che l’attuale dialogo sia una forma di politica religiosa che ha ben poco ascolto alla base. A livello psicologico, peraltro, la polarità tra ebrei/vittime e cristiani/persecutori non ne favorisce la diffusione. Proprio per non dimenticare il passato è bene ricordare l’intenso confronto spirituale, religioso, culturale e sociale tra ebrei e cristiani in alcuni momenti storici. Infine il dialogo non deve far dimenticare alle parti in causa l’esigenza di una messianica “luce dei popoli” (Isaia 42,6; 49,6). Ebrei e cristiani devono operare nel mondo con uno spirito di servizio all’umanità intera. Quale migliore testimonianza dell’unico Dio in cui credono?

sabato 25 giugno 2005

Ebrei e cristiani in dialogo (6/7)


Quando

Ebrei e cristiani hanno cominciato a dialogare serenamente tra loro solo dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah. In epoca medioevale le uniche forme di comunicazione tra loro erano le dispute teologiche spesso volute dai cristiani e comunque tese alla capitolazione dell’avversario. Un notevole contributo alla nuova epoca di dialogo è venuto nel XIX-XX secolo dall’elaborazione di un pensiero dialogico da parte di filosofi ebrei come Franz Rosenzweigh e Martin Buber.

Il primo dialogo significativo tra ebrei e cristiani avvenne in occasione della Conferenza internazionale contro l’antisemitismo di Seelisberg (Svizzera) del 1947. Un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di paesi, furono coordinati ed ispirati dallo storico francese Jules Isaac e dal gran rabbino Kaplan. In quell'occasione venne anche fondato l'ICCJ (International Council of Christians and Jews). Di seguito il testo in dieci punti del documento conclusivo: “1. Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell'Antico come nel Nuovo Testamento. 2. Ricordare che Gesù è nato da ma madre ebrea, della stirpe di David e del popolo d'Israele, e che il suo amore eterno e il suo perdono abbracciano il suo popolo e il mondo intero. 3. Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, e i primi martiri, erano ebrei. 4. Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell'amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna. 5. Evitare di sminuire l'ebraismo biblico e postbiblico nell'intento di esaltare il cristianesimo. 6. Evitare di usare il termine giudei nel senso esclusivo di nemici di Gesù o la locuzione nemici di Gesù per designare il popolo ebraico nel suo insieme. 7. Evitare di presentare la passione in modo che l'odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi. Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsibilità in cui essi incorrono nel presentare il vangelo e sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro bambini o uditori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l'orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi. 8. Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura e il grido della folla eccitata; ‘che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli’, senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno’. 9. Evitare di dare credito all'empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a m destino di sofferenza. 10. Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla Chiesa”.

Una pietra miliare per il dialogo fu certo la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II dell’ottobre 1965. Di seguito alcune frasi del punto n. 4 del testo sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti... Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo... Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo... La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque...”.

Ebrei e cristiani non dimenticano che ad Auschwitz sei milioni di ebrei sono morti per mano di criminali che si professavano cristiani. E teologo cattolico Johann Baptist Metz afferma: “Noi cristiani non possiamo ritornare indietro oltre Auschwitz, e da Auschwitz, a ben vedere le cose, non passiamo mai soli ma sempre con le sue vittime. Stanno qui, a mio avviso, le radici dell’ecumenismo giudaico-cristiano” (J.B. Metz, Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981). Tenere fisso lo sguardo su Auschwitz è un dovere di ogni cristiano. Il documento pontificio Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà richiama che, accanto all’assistenza che molti cristiani offrirono agli ebrei perseguitati dal nazismo, “la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo”.

venerdì 24 giugno 2005

Ebrei e cristiani in dialogo (5/7)


Dal 27 al 29 maggio 2003 si è svolto a Tessalonica (Salonicco) il quinto incontro accademico tra giudaismo e cristianesimo ortodosso sul tema Fedeltà alle fonti: il nostro comune impegno per pace e giustizia. L’importanza dell’iniziativa è attestata dalla partecipazione del Patriarca ecumenico delle Chiese ortodosse Bartolomeo I. Alcune affermazioni del comunicato finale dell’incontro sono degne di nota: resistenza di fonti comuni non intaccano le rispettive peculiarità; l’antisemitismo è anticristiano; dalle fonti spirituali cristiane ed ebraiche è possibile trarre energie per promuovere la pace, la giustizia sociale e i diritti umani. L’incontro di Tessalonica è stato promosso dall’ufficio del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli (Istanbul) presso l’Unione europea, diretto dal metropolita Emmanuel, e dalla DCIC di New York, co-presieduta dai rabbini Joel Meyers e Israel Singer, quest’ultimo presidente del WJC. All’incontro erano presenti oltre 60 delegati dal mondo intero. Tra gli osservatori presenti spiccavano quelli del Vaticano e del Consiglio mondiale delle chiese.

Non è tutto. Per la prima volta nella storia il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha canonizzato persone che hanno vissuto a Iungo in Europa occidentale. Alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2004) il Santo Sinodo ha canonizzato Elisaveta Pilenko (1891-1945), meglio nota come mat’ Marija, e alcuni suoi compagni tra cui il figlio Jurij. Un comunicato stampa li definisce “personalità che hanno segnato la storia spirituale dell’emigrazione russa in Francia”. Il Patriarcato di Mosca non ha preso l’iniziativa perché le parrocchie di tradizione russa in Europa occidentale sono sotto la giurisdizione di Costantinopoli. Il patriarca ecumenico Bartolomeo I ha fissato la commemorazione liturgica dei nuovi santi alla festa del profeta Elia (20 luglio).

La testimonianza di mat’ Marija è certamente profetica. Nasce in una famiglia benestante sotto lo zar Nicola II. Si sposa giovanissima, frequenta l’ambiente letterario e pubblica poesie. Allo scoppio della rivoluzione diventa sindaco di una cittadina sul mar Nero. Viene condannata a morte per collaborazione con i bolscevichi e graziata dal suo futuro marito. Emigra in Francia con i suoi tre figli e all’attività letteraria affianca l’impero sociale. Dopo il secondo divorzio veste l’abito monacale e assiste gli emigrati russi in tutta la Francia. Quando i nazisti occupano Parigi prende parte alla resistenza e protegge gli ebrei. Viene arrestata e deportata a Ravensbruck dove muore in una camera a gas il venerdì santo del 1945 a 54 anni. Marija fu in quel pugno di ortodossi russi che seppe vedere Gesù perseguitato negli ebrei sofferenti. Hélène, figlia di padre Dimitrij Klépinin, sostiene che l’opera di mat’ Marija per gli ebrei ebbe un fondamento teologico. Nina Kauchtschischwili, autrice dell’unica sua biografia in italiano che raccoglie anche suoi scritti (Mat’ Marija. Il cammino di una monaca, Qiqajon, Bose 1997), lo esclude. Lo Stato d’Israele ha proclamato mat’ Marija e padre Klépinin “giusti tra le nazioni” e i loro nomi sono iscritti nel memoriale di Yad va-Shem a Gerusalemme. La loro canonizzazione è una conferma delle relazioni tra ebrei e cristiani ortodossi.

Quando si spinge ad azioni come quelle evocate dai documenti statunitensi e a testimonianze come quella di mat’ Marija il dialogo, dovunque si svolga, non ha bisogno di ulteriori commenti.

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

  LE BEATITUDINI (PREMESSA ALLE SUPERTESI) Il rotolo di Qumran 4Q525 2 II, 1-6 ha 9 beatitudini, di cui solo le ultime 5 sono conserva...