Ai nostri lettori: Shalom.
Care
lettrici e cari lettori – che idealmente ci seguite dal gennaio del 1978,
allorché apparve il primo numero della nostra rivista – questo editoriale è un
commiato: Sefer come rivista cartacea, nell’era della rivoluzione
digitale e dopo un cammino così intenso e significativo, chiude con il presente
numero doppio 179-180, sebbene tutti noi si sia consapevoli che il percorso
avviato or sono 45 anni resta più che mai aperto. Uno sguardo attento a quel
che che è avvenuto in questi quattro decenni e mezzo basta per rendersi conto di
quanto profondi siano stati i cambiamenti attorno a noi, e non solo quelli
tecnologici: assai diverso è oggi lo scenario della vita nel mondo ebraico e in
Israele, specie nel contesto geo-politico del Medioriente; grandi passi in
avanti (non senza alcune frizioni) ha compiuto il dialogo ebraico-cristiano,
soprattutto dopo il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede; non
ultimo, vi è stato un salto generazionale in forza del quale molti protagonisti
della prima ora, attivi nell’esperienza di Sefer, ci hanno lasciati: qui
i due nomi fondamentali sono Maria Baxiu (1924-1982) e Paolo De Benedetti
(1927-2016). A loro, prima che ad altri, va il nostro pensiero pieno di affetto
e gratitudine, per quello che hanno dato e per quello che hanno significato nel
tempo, per i lettori e i collaboratori e gli amici di questa rivista. Di quel
gruppo originario rimangono ancora oggi in redazione solo Marisa Chiocchetti,
Elsa Saibene e Nazareno Pandozi: senza Marisa, Elsa e Nazareno, senza il loro
generoso volontariato e la loro determinazione, uniti a una grande passione per
la causa del dialogo, Sefer non sarebbe arrivato a quest’ultimo numero.
Anche verso di loro grande è la nostra gratitudine. Ma nessuna esperienza umana
è ‘per sempre’ e occorre saper riconoscere il momento di voltar pagina.
Nel
primo numero di Sefer erano ospitati un articolo di padre Marcel Dubois,
domenicano all’epoca docente all’Università ebraica di Gerusalemme, e saggi di
Martin Buber e di Paolo De Benedetti. Tali firme già disegnavano la costellazione
di interessi, studi e ricerche a cui la rivista è rimasta sempre fedele negli
anni, a dispetto di tutti i cambiamenti. Quei tre nomi erano altrettanti
testimoni del fatto che un dialogo e una collaborazione tra cristiani e ebrei
fosse possibile e non solo auspicabile, nonostante secoli di dispute e accuse;
nonostante la ‘teologia della sostituzione’ che aveva sottratto legittimità
teologica all’esistenza del popolo ebraico; nonostante la fatica, da parte
cristiana, nel riconoscere cosa abbia significato per gli ebrei di oggi la
ferita irrimarginabile della Shoà e la speranza rappresentata dalla rinascita
dello stato di Israele. Sefer ha accompagnato per quasi mezzo secolo la
maturazione di una temperie nuova, nella quale i cristiani hanno preso via via
una maggiore consapevolezza di quella ferita e di quella speranza e
dell’assoluta necessità di ‘conoscere Israele’ (secondo il bel titolo delle
conferenze che si tenevano, e si tengono ancora, a Milano dalle Suore di Sion –
oltre a suor Maria Luisa, suor Ada e suor Luigina – la cui casa fu un punto di
riferimento per ebrei e cristiani, pensanti e dialoganti nella città che diede
cattedra episcopale al Card. Martini e cattedra rabbinica a Rav Laras):
conoscere Israele e il giudaismo in tutte le loro manifestazioni, nei loro
settanta volti come settanta sono “i significati della Torà”. Sefer si è
sempre rispecchiata in queste parole di Carlo Maria Martini: “Bisogna amare
Israele con un amore aperto a tutto e a tutti. Bisogna amare la cultura ebraica
di oggi, la loro musica, la loro letteratura, la loro storia, il loro modo di
pregare, il loro modo di fare festa. Solo un amore così permette il superamento
dei timori e delle difficoltà e dà al dialogo quella gioia e quella umanità che
si addice all’incontro tra amici”. Con questo spirito Sefer è sempre
stato presente e attivo nei colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli, giunti
quest’anno alla 42esima edizione, così come in innumerevoli iniziative
dialogiche: da una semplice conferenza in parrocchia al progetto editoriale
della Bibbia dell’Amicizia (edizioni San Paolo, 2019-2021).
Nell’editoriale
di quel primo numero del ‘78 si legge: “Ci poniamo accanto a Israele nella sua
totalità, nella sua realtà attuale, nella sua complessa vitalità, a tutto
Israele, accettando i rischi, le difficoltà e le critiche di tale scelta”. Alle
spalle di queste coraggiose parole c’era, naturalmente, la svolta conciliare e
in particolare Nostra Aetate; ma c’erano anche le guerre dei Sei giorni
del ‘67 e del Kippur del ’73, e un declino del consenso internazionale verso
Israele. Anni bui sarebbero seguiti, di incomprensione delle ragioni di
Israele, culminati nel 1982 – quarant’anni fa esatti, con il terribile
attentato alla sinagoga di Roma e l’omicidio del piccolo Stefano Gaj Taché (due
anni) e 40 feriti, al termine della funzione religiosa di un’importante festa
ebraica; poi vennero gli anni delle intifade... Sì, stare al fianco di Israele
ha comportato non poche critiche da parte di alcuni settori del mondo
cattolico! Ma Sefer non è mai venuto meno alla propria triplice
missione: primo, far conoscere Israele in tutti i suoi aspetti; secondo,
combattere il pregiudizio antigiudaico, specie quello di matrice teologica di
una cristianità incapace di vedere la fedeltà di Israele al patto sinaitico, ai
costi che sappiamo, oltre che la fedeltà divina al popolo di quell’alleanza; terzo,
promuovere lo spirito del dialogo e una corretta metodologia nell’approccio ai
Testi sacri e alla storia delle difficili relazioni tra i due mondi. Sempre nella
prima pagina del primo numero di Sefer compariva una suggestiva immagine
di un sofèr, uno scriba contemporaneo intento a vergare un sefer Torà:
sefer in ebraico vuol dire ‘libro’, anzi ‘rotolo’ perché in antico i
libri, fossero scritti su pergamene o su papiri, si avvolgevano, si
arrotolavano. Nel mondo ebraico però il sefer per antonomasia era, ed è,
anzitutto la Torà. La nostra rivista ha dedicato moltissimi articoli alla
conoscenza e alla corretta comprensione del Libro dei libri, il Tanakh, che in
quanto Antico Testamento è parte integrante della Rivelazione anche per i
seguaci di Gesù in tutte le chiese cristiane. In tal senso Sefer ha dato
voce non solo al mondo cattolico, ma anche ai cristiani riformati – specie agli
amici valdesi, che a Milano hanno la libreria Claudiana, per anni un altro
luogo emblematico del dialogo tra le due fedi – e al cristianesimo ortodosso.
Come non ricordare il compianto pastore luterano Martin Cunz (1944-2003) la cui
voce ha così spesso risuonato da queste pagine? Sebbene non possiamo menzionare
qui tutti i collaboratori che, gratuitamente, hanno arricchito chi avesse letto
o persino studiato i nostri articoli, due eccezioni tuttavia vanno fatte tra i
viventi: il pastore Daniele Garrone dal mondo valdese e il professor Piero
Stefani dal mondo cattolico; costoro sono stati autentici punti di riferimento
soprattutto nel campo di un’esegesi biblica attenta a non ricadere negli errori
della lettura tipologica e del sostituzionismo teologico, un’esegesi e una
teologia cristiane tese a valorizzare (non a usurpare) l’immenso patrimonio
spirituale del giudaismo rabbinico proprio nell’intelligenza delle Scritture.
Nell’ora di questa nostra ne‘ilà, ossia della ‘chiusura’ di una storia e
del commiato, vogliamo esprimere a questi maestri e compagni di strada – così
come a tutte le collaboratrici e i collaboratori – la nostra sincera
gratitudine per le idee, gli stimoli e i contributi offerti in tutti questi
decenni.
Sefer
chiude, ma la causa, anzi le cause per le quali ha lavorato finora restano e
continuano ad essere dinanzi a noi come un dovere per tutti, come una necessità
sia per la vita delle chiese sia per il mondo ebraico, religioso o laico che
sia. Gli strumenti per servire una causa possono diventare obsoleti, e per
questo possono essere cambiati o vanno almeno risintonizzati sui tempi nuovi,
per essere più adatti alle nuove generazioni. Da questo punto di vista il clima
oggi tra ebrei e cristiani si presenta qualitativamente migliore rispetto a
quello di quasi mezzo secolo fa: esistono ora strumenti dialogici consolidati a
livello istitizionale, ad esempio tra il rabbinato israeliano e alcuni
organismi vaticani, così come sono attive associazioni e amicizie
ebraico-cristiane a molti livelli in Europa, nelle Americhe e in Israele.
Tuttavia è innegabile che i mondi religiosi, quello cattolico come pure quello
ebraico, stanno vivendo una fase di riflusso e di stanchezza, se non di
demotivazione, verso il dialogo. Per mancanza di idee? Per sordità spirituale?
O forse è mera pigrizia intellettuale? O è il peso della retorica? Addirittura
sfiducia nelle rispettive istituzioni? Qualche ripensamento per timore di un
rigurgito di passato (o proprio nostalgia di quel passato)? Non escludiamo vi
sia un misto di tutto ciò, che induce a chiudersi chi in murate facoltà
teologiche, chi nella ‘sana’ vita di parrocchia, chi nei ‘sicuri’ batè
ha-midrash... al fine di rafforzare la propria identità. Vero, l’identità
va sempre rafforzata, ma essa non è il polo opposto all’apertura o al dialogo;
anzi chi ha un’identità forte si apre e dialoga in modo convinto, perché sa che
il dialogo e lo scambio e l’incontro e la collaborazione con l’altro rafforzano
e motivano interiormente chi si impegna in tal senso. Forse mancano le
personalità, quelle figure coraggiose che osano il nuovo, di cui si è nutrito
nell’ultimo scorcio del Novecento il cammino del dialogo cristiano-ebraico. Per
tanto osiamo sperare e immaginare che gli anni a venire vedano il sorgere di
nuova leva di studiosi e l’emergere di una nuova leadership, sia tra gli ebrei
sia tra i cristiani (cattolici inclusi), ossia teologi e pastori e rabbini –
donne e uomini – capaci di dialogo, umili e coraggiosi, consapevoli e profetici
in parole e gesti, perché quel che è stato costruito negli anni, che sono stati
anche gli anni della vita di Sefer, possa continuare e dare ancor più
frutti. Tempi e orizzonti nuovi richiedono anche maestri innovativi, guide
sicure e personalità carismatiche che non esitano a farsi carico dei dubbi e
delle domande, delle angosce e delle speranze che il recente passato ha fatto
scaturire. In sintesi, occorre più coraggio; serve più coscienza critica;
necessitano più studio e più ascolto, perché l’altro – l’ebreo per il cristiano
e il cristiano per l’ebreo – non sia percepito come minaccia ma neppure come addendum
superfluo (il giudaismo come ‘materia facoltativa’, come avviene nelle facoltà
teologiche!), ma sia compreso come compagno di viaggio, se non ancora come
fratello e sorella, nel perfezionamento della creazione e nella testimonianza
del Creatore.
Nell’attuale
anno bicentenario della nascita del rabbino livornese Elia Benamozegh – della
cui opera l’ebraismo italiano va giustamente fiero – nutriamo la speranza che
il suo coraggio nello studio delle fonti, ebraiche e cristiane, stimoli a
riaprire la strada a uno studio congiunto, capace di rafforzare le distinte
identità religiose e al contempo di additare alla società contemporanea quei
valori etico-religiosi che servono da ideali di vita per le nuove generazioni.
La redazione di Sefer si congeda, allora, con il tradizionale saluto
ebraico: shalom! Pace e prosperità, armonia e integrità “su di noi e su
tutto Israele” e su ogni creatura “perché la Sua benevolenza si estende su
tutte le Sue creature” (Tehillim/Salmi 145,9).