Nel canone ebraico la meghillàt Estèr, che risale a un periodo tra il IV e il II sec. e.v., è priva del nome (JHWH) impronunciabile di Dio. Il libro deuterocanonico di Èster, scritto più tardi in greco, comprende aggiunte e varianti pie che sembrano voler colmare quella lacuna. Il rotolo che narra la storia di Hadassah non è tra i manoscritti ritrovati alla metà del secolo scorso nelle grotte di Qumran, ma se anche la setta di stretta osservanza degli Esseni l’avesse espunto dal canone, per Shimon ben Lakish (III sec. e.v.) e Maimonide (XII sec) Ester rimarrà con la Torà nel “mondo avvenire” dopo la venuta del Messia. Questa fiaba d’Oriente senza istanze religiose o richiami ad altri libri biblici, si conclude indicendo la festa di Purim, o forse giustificando una festa antichissima di burlesche battaglie fra opposte frazioni e di pubblici banchetti. La storia narrata si svolge in tempo e in terra d’esilio, dopo l’editto di Ciro (538 a.e.v.) che aveva riportato dalla Persia a Gerusalemme solo un resto del popolo ebraico, e forse la sua redazione si chiude all’epoca della profanazione del tempio di Antioco Epifane e della rivolta dei Maccabei (167 a.e.v). Una dialettica tra golah (esilio, nascondimento, abbandono, altrove) e gheullah (redenzione). Si apre con simili considerazioni sul rotolo di Ester e con un confronto tra tre donne che danno il loro nome a libri biblici - Ester e Rut nella Bibbia ebraica (e protestante) e Giuditta in quella cristiana (cattolica e ortodossa) - il libro di Giusi Quarenghi della collana “Madri della fede”. Procede poi con la lettura per intero della Meghillà per eccellenza, interrotta da riflessioni, rinvii, suggestioni, ricerche di significati, aperture di senso, domande sul tempo presente. Nel segno di un’assenza di Dio che, citando André Neher, è il segno di una presenza troppo incandescente per essere detta o, al contrario, del desiderio che gli uomini e soprattutto le donne se la sbrighino da soli.