martedì 31 marzo 2015

Convegno CEI di Salerno

Lo scorso lunedì 2 febbraio, giorno in cui i cattolici ricordano la presentazione al tempio di Gesù (cf Lc 2,23), il presidente dei vescovi italiani ha scritto una lettera a tutti i rabbini del Belpaese. Lo ha fatto a cinquant’anni dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate, definendo il concilio ecumenico il “massimo grado di espressione” della Chiesa cattolica e ribadendo “la volontà di vicinanza al Popolo di Israele”. Il “tempo dell’invito”, scrive il cardinale Angelo Bagnasco, ha lasciato il posto “al tempo dell’imperativo” del dialogare insieme. Il riferimento al convegno di Salerno del novembre scorso è esplicito. La “importante” occasione ha “voluto rimettere a fuoco il tema del dialogo ebraico-cristiano” e ha visto la partecipazione di cristiani “non soltanto cattolici, impegnati nel dialogo”. Sono state “tre giornate di confronto e di scambio, sincero e fraterno” che “non costituiscono un inizio” ma neppure “il traguardo finale”. Il cardinale chiede di “individuare e promuovere forme ancora più incisive” di dialogo “anche ad un livello istituzionale e teologico”. Chiede infine ai rabbini di indicare “quali proposte possano corrispondere alle attese Sue e della Sua Comunità”.

Il convegno “Invocheranno il Nome dell’Eterno concordemente uniti” viene dunque elogiato e contemporaneamente superato, inglobato nel cammino della Chiesa cattolica italiana, privilegiando la continuità a discapito delle novità. Perché alcune novità a Salerno ci sono indubbiamente state. Per prima la possibilità, per cristiani ed ebrei, di ascoltare alcune voci “profetiche” di ebrei non italiani. Per seconda l’opportunità di affiancare più voci “istituzionali”, almeno da parte cristiana, a volti di persone “impegnate” che solitamente si ritrovano ai Colloqui di Camaldoli. Per terza l’allargamento a un pubblico più vasto di un evento nato come un incontro dei Delegati per l’ecumenismo e il dialogo delle Diocesi italiane. Allargamento che è stato possibile anche perché si è focalizzato il dialogo su un solo interlocutore – l’ebraismo – e non su tutta l’ampia gamma del dialogo – chiese cristiane, ebraismo, islam, religioni orientali e così via – come accadeva di solito.

D’altro canto una cosa è certa. Quando il dialogo passa da un livello “diffuso” a un livello più “istituzionale” si corre il rischio di una “clericalizzazione”. Ovvero un “irrigidimento” che, se per certi versi può essere opportuno, non deve tuttavia trasformare il dialogo in un “affare” per pochi. Un segnale di tale mentalità lo si può ritrovare nell’indirizzo della lettera del cardinale: “A tutti i Rabbini e alle Comunità Ebraiche da Loro presiedute presenti sul territorio italiano”. L’ebraismo in Italia è da sempre caratterizzato da una separazione tra la Comunità locale, presieduta da un “laico” eletto dagli iscritti, e l’Ufficio rabbinico. Ovvero i rabbini sovrintendono il culto, presidiano le sinagoghe, ma non presiedono le comunità.

Del convegno di Salerno poi si è detto e scritto molto, sia in termini elogiativi e in taluni casi persino “trionfalistici”, sia in termini critici e in taluni casi persino denigratori. Per esempio che la “capitale” italiana del dialogo ebraico-cristiano si è trasferita per tre giorni da Milano a Salerno, lasciando poco spazio alle molte altre significative realtà locali, sviluppatesi anche laddove gli ebrei non ci sono o non ci sono più. Oppure che molte persone storicamente impegnate nel dialogo non sono state interpellate e tra queste soprattutto le donne. Che alcune istituzioni e alcune cattedre che si occupano di dialogo siano state dimenticate. Che l’intesa tra ebrei e cristiani non si deve trasformare in una “santa alleanza” in funzione “anti islamica”. Fatta la giusta critica, non bisogna tuttavia dimenticare quelle giornate, in cui luce e calore, nonostante l’inverno incipiente, “riscaldavano” le persone che oziavano sugli scogli come quelle che tendevano le orecchie in un’aula del Grand Hotel Salerno.


 

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