Il teologo la chiama fede, il politico sicurezza, l’economista credito. Noi stasera parliamo di fiducia.Lo facciamo in un’epoca storica in cui – per dirla alla francese – la société de confiance è divenuta société de défiance. La sfida quotidiana per la sopravvivenza ha preso il sopravvento. Così il teologo afferma che non c’è più religione, il politico gioca con la paura degli elettori, l’economista recita il mantra della crisi.
L’unica opera narrativa che ho trovato con la parola fiducia nel titolo è The Confidence-Man. L’ha scritta, profeticamente, Hermann Melville nel 1857. L’autore di Moby-Dick (1851) e Bartleby the Scrivener (1853) precorre la letteratura dell’assurdo del ‘900. Uno sconosciuto mette alla prova un gruppo di viaggiatori su un battello diretto a New Orleans. In Italia il romanzo è stato pubblicato con i titoli di Il truffatore di fiducia oppure L’impostore.
L’apocalisse (ovvero: fiducia nel futuro)
Roberto Bolaño nasce a Santiago del Cile nel 1953 e muore a Barcellona nel 2003. Trascorre la sua adolescenza in una biblioteca di Città del Messico. A 20 anni decide di tornare in Cile per sostenere le riforme socialiste di Salvador Allende. Al termine di un lungo viaggio in pullman, in autostop e su una barca, vi arriva pochi giorni prima del colpo di stato del dittatore Augusto Pinochet. Incarcerato, riesce a fuggire in Messico, dove si dedica alla poesia. In Spagna fa il vendemmiatore, il vigilante notturno in un campeggio, il commesso in un negozio, prima di dedicarsi completamente alla letteratura.
Estrella distante (Stella distante) è un suo romanzo breve del ’96. Il racconto è ambientato in Cile e in Spagna a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Ruota attorno alla figura di Carlos Wieder, sadico torturatore e poeta d’avanguardia. L’io narrante conosce Wieder durante alcuni reading di lettura creativa. Dal cortile del carcere vede la sua prima esibizione pubblica come aviatore della Fuerza Aérea de Chile (l’aeronautica militare). Con le sue acrobazie aeree Wieder scrive versi poetici in cielo.
“Poco prima io ero uscito dal Centro La Peña, in libertà senza imputazioni a carico, come la maggior parte di quanti sono passati per quel posto. Nei primi giorni non mi mossi da casa, non volendo provocare allarme in mia madre e in mio padre ma provocando le beffe dei miei due fratelli più piccoli che con tutta la ragione mi diedero del vigliacco. Di lì a una settimana ricevetti la visita di Bibiano O’Ryan. Aveva, disse quando ci ritrovammo da soli nella mia camera, due notizie, una buona e un’altra cattiva. Quella buona era che ci avevano espulsi dall’università. Quella cattiva era che quasi tutti i nostri amici erano scomparsi. Gli dissi che probabilmente erano stati arrestati o che se n’erano andati, come le sorelle Garmendia, nelle loro case di campagna. No, disse Bibiano, anche le gemelle sono scomparse. Disse ‘gemelle’ e gli si spezzò la voce. Quanto seguì subito dopo è difficile da spiegare (sebbene in questa storia tutto sia difficile da spiegare), Bibiano si buttò tra le mie braccia (letteralmente), io ero seduto ai piedi del letto, e scoppiò a piangere sconsolatamente sul mio petto. All’inizio pensai che gli fosse venuta una crisi di qualcosa. Poi mi resi conto, senza la minima ombra di dubbio, che non avremmo più rivisto le sorelle Garmendia. Dopodiché Bibiano si alzò, si avvicinò alla finestra e non tardò a ricomporsi. Si possono solo fare congetture, disse voltandomi la schiena. Sì, dissi senza sapere a che cosa si riferisse. C’è una terza notizia, disse Bibiano, come ci si poteva aspettare. Buona o cattiva?, domandai. Da far venire i brividi, disse Bibiano. Avanti, dissi, ma subito aggiunsi: no, aspetta, lasciami tirare il fiato, che era come dire lasciami guardare la mia camera, la mia casa, il viso dei miei genitori per l’ultima volta”.
L’arte in America Latina è duplice. Avete presente i quadri naif latinoamericani, quei meravigliosi paesaggi bucolici? In letteratura corrispondono ai romanzi d’avventura. La realtà viene trasformata, quasi trasfigurata: questa è una possibilità. L’altra è fotografare la realtà, ovvero testimoniare l’orrore: questo fa Bolaño. Nella sua opera non c’è consolazione, egli intende provocare le coscienze dei lettori. Ma così facendo, narrando l’orrore, Bolaño conserva la fiducia dell’apocalisse. La speranza che quell’ordine del mondo così opprimente possa, prima o poi, venire rovesciato. Nel frattempo, tuttavia, c’è la paralisi e le stelle sono distanti
Fiducia nella natura e nel mondo in cui viviamo
Haruki Murakami nasce nel 1949a Kyoto, la città dei mille templi, capitale del Giappone per più di un millennio, risparmiata dal 2° conflitto mondiale, oggi nota per l’omonimo trattato internazionale, firmato a da più di 200 Paesi che si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti. Murakami è figlio di 2 insegnanti di letteratura e nipote di un monaco buddista. A metà degli anni ’70 si sposa contro il parere dei genitori, gestisce un jazz bar letterario e comincia a scrivere. Oggi traduce in giapponese Raymond Carver, noto esponente statunitense della narrativa minimalista, e cita volentieri Kafka, Dostoevskij, Salinger, Cechov, Marquez e Vonnegut.
Umibe no Kafuka (Kafka sulla spiaggia) è un romanzo del 2002. Nakata è un vecchio in possesso di capacità paranormali (parla con i gatti) che un misterioso incidente durante una gita scolastica in montagna ha reso analfabeta. Tamura Kafka (dal noto autore boemo di lingua tedesca) è un adolescente che dall’età di 4 anni vive solo con il padre perché la madre e la sorella se ne sono andate. Tamura ha seri problemi con il padre (come Franz Kafka, del resto), parla spesso da solo o con Corvo, il suo amico immaginario (cornacchia in ceco è kavka). Dato che teme la sua profezia edipica: “ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella”, decide di andarsene di casa il giorno del suo compleanno.
Su un treno conosce una ragazza dell’età di sua sorella e se ne innamora. Raggiunge la cittadina di Takamatsu, alloggia in un ostello e frequenta la biblioteca privata Komura, dove coltiva la sua bruciante passione per la letteratura. Qui conosce una donna molto attraente dell’età di sua madre e se ne innamora. Poi fa amicizia con il factotum androgino Oshima. Quando il padre di Tamura viene trovato morto, Oshima offre a Tamura un alloggio di fortuna, un luogo isolato in montagna.
“Entro in casa e chiudo a chiave la porta. Appena rimango solo, il silenzio, come se non avesse aspettato altro, mi circonda da ogni lato. Fa talmente freddo da non credere che siamo all’inizio dell’estate, ma è troppo tardi per accendere la stufa. Pazienza, per stanotte mi infilerò nel sacco a pelo e dormirò così. Sono stordito per la mancanza di sonno e ho dolori dappertutto a causa del lungo viaggio in auto. Giro la manopola per abbassare la fiamma della lampada. La stanza diventa più scura, e le ombre che abitano gli angoli si fanno più dense. Non ho nemmeno voglia di cambiarmi, perciò entro nel sacco a pelo così come sono, in blue jeans e felpa con cappuccio.
Chiudo gli occhi e cerco di addormentarmi, ma non è così semplice. Il corpo cerca con tutte le forze il sonno, ma la mia coscienza è sveglissima. Ogni tanto qualche uccello notturno rompe il silenzio col suo stridulo grido. Ma ci sono anche vari altri suoni di cui non capisco l’origine. Un fruscio di foglie secche, come se qualcosa le calpestasse. Il rumore di un corpo pesante che passa fra i rami strisciando. Un respiro affannoso. Tutti questi suoni sembrano molto vicini alla casa. Ogni tanto anche le assi di legno sulla veranda scricchiolano in modo sinistro. Mi sento circondato da un esercito di presenze sconosciute, di creature che si annidano nell’oscurità.
Ho la sensazione di essere osservato da qualcuno, avverto il suo sguardo sulla pelle, bruciante. Il battito del mio cuore ha un rumore sordo. Senza uscire dal sacco a pelo, controllo più volte con gli occhi la stanza illuminata dalla luce fioca della lampada per assicurarmi che non vi sia nessun altro. La porta è chiusa da una serratura robusta, e tende pesanti coprono le finestre senza lasciare uno spiraglio. Mi ripeto che devo stare tranquillo: sono solo qui dentro, ed è impossibile che qualcuno mi stia spiando”.
L’immersione nella natura può essere un sogno oppure un incubo. Tamura, molto avvezzo alla cultura, non ha sviluppato l’integrazione con la natura e il mondo che lo circonda e sembra sempre vivere sempre un po’ troppo appartato. Nakata invece, che ha dimenticato tutto, coltiva naturalmente molte amicizie, sembra essere in sintonia con il mondo che lo circonda, riesce a dormire per giorni, a operare azioni che sembrerebbero impossibili.
Occhio per occhio (ovvero: fiducia nel diverso)
Daniel Pennac (Casablanca 1944) proviene da una famiglia di militari francesi, motivo per cui trascorre la sua infanzia in Africa e nel Sud-est asiatico. Tornato in Francia fa l’insegnante per 28 anni e scrive libri per ragazzi. La notorietà gli arriva con i romanzi di Benjamin Malaussène, membro di una famiglia multietnica e capro espiatorio di un intero quartiere di Parigi. Il libro preferito di Pennac è L’oeil du loup (L'occhio del lupo), un racconto per ragazzi dell’84. Il lupo azzurro dell’Alaska vive in uno zoo ed è triste perché Pernice, la lupa che divideva con lui la gabbia, è appena morta. Ha un occhio solo perché l’altro l’ha perduto 10 anni prima lottando per non essere catturato. Un ragazzo ogni giorno si ferma davanti alla gabbia del lupo e lo fissa a lungo. Il lupo non gradisce ma, a un certo punto, accade l’imprevedibile.
“Il giorno dopo il ragazzo è sempre là. E il giorno seguente. E l’altro ancora. Così che il lupo è obbligato a ripensare a lui. ‘Ma chi è? Che vuole da me? Non fa niente tutta la giornata? Non lavora? Niente scuola? Niente amici? Niente genitori? E che?’ Un mucchio di domande che gli rallentano la marcia. Si sente le zampe pesanti. Non è ancora la stanchezza, ma quasi. ‘Incredibile!’ pensa il lupo. Domani, almeno, lo zoo rimarrà chiuso. È il giorno del mese dedicato alla cura delle bestie, alla pulizia delle gabbie. Niente visitatori, quel giorno. ‘ Mi sarò sbarazzato di lui’ Neanche per sogno. Il giorno dopo, come tutti gli altri giorni, il ragazzo è là, più che mai, tutto solo davanti al recinto, nel giardino zoologico completamente deserto. ‘Oh, no!’ geme il lupo. Eh, sì! Improvvisamente il lupo si sente molto stanco. C’è da pensare che lo sguardo del ragazzo pesi una tonnellata. ‘D’accordo’ pensa il lupo. ‘D’accordo! L’hai voluto tu!’ E, bruscamente, si ferma. Si siede eretto, proprio davanti al ragazzo. E anche lui si mette a fissarlo. Non quello sguardo che vi passa attraverso, no: il vero sguardo, lo sguardo fisso”.
Attraverso l’unico occhio aperto dei due protagonisti fluiscono delle immagini, prima in una direzione, poi nell’altra. Il ragazzo rivive la vita da lupo braccato e fuggitivo nella gelida Alaska. Il lupo scopre come il ragazzo, attraversando l’Africa, è divenuto narratore di storie. Capita spesso anche a noi di chiudere un occhio; non per clemenza, per magnanimità, per mettere qualcuno in difficoltà; non per furbizia, per scaltrezza, per averne un guadagno. Chiudiamo un occhio perché quello che vediamo non ci piace, non ci soddisfa, non ci nutre. Allora, pensiamo, un occhio solo basta e avanza. L’amicizia, l’empatia, spesso guariscono; è sufficiente esserci, stare a fianco di qualcuno con sguardo aperto e limpido, per ridare voglia di vedere e di sentire a chi l’ha persa. Anche due specie differenti come l’umano e il lupo, pur con linguaggi e vissuti diversi, nella sofferenza e nella privazione di libertà trovano una comunione di spiriti.
Fiducia nei propri simili che ci vivono accanto
Niccolò Ammaniti (Roma 1966) ha pubblicato una mezza dozzina di romanzi e ha vinto un premio Strega. Fa parte di quel gruppo di scrittori definiti “cannibali” per il crudo realismo e il mescolamento di generi letterari colti e popolari. Un’avanguardia letteraria che se fosse musicale potremmo definire pop(olare) e se fosse cinematografica pulp (con riferimento a Quentin Tarantino). Per questo motivo dei romanzi di Ammaniti sono state fatte trasposizioni cinematografiche, come Io non ho paura di Gabriele Salvatores e la recente Io e te di Bernardo Bertolucci.
Protagonista del romanzo Io e te è Lorenzo Cuni, un adolescente introverso. Un gruppo di suoi compagni di classe sta organizzando una settimana bianca a Cortina d’Ampezzo. Deluso per non essere stato invitato, si prepara a partire e si fa accompagnare dalla madre vicino al luogo dell’appuntamento. Quindi si rifugia in cantina con una provvista di cibo, libri e fumetti, la playstation. Puntuale come una sciagura arriva Olivia, figlia di un precedente matrimonio di suo padre, 9 anni più grande, cerca dei soldi nascosti in uno scatolone, ma rimane vittima di una crisi di astinenza. Lorenzo non accetta di essere disturbato, Olivia non vuole interferenze nella sua vita. Pian piano, inaspettatamente, si crea complicità.
- E poi?
- Ti sei addormentato di colpo. Sei crollato come se ti avessero anestetizzato. Mai vista una cosa del genere.
- E tu… tu che hai fatto?
- Io mi sono messa accanto a te. Poi il motoscafo è partito. E io e te siamo rimasti in cabina con l’odore della sentina e tutto che vibrava e sbatteva.
- Io e te?
- Sì -. Ha fatto un tiro dalla sigaretta. – Io e te.
- Che strano, non mi ricordo niente. Papà non me ne ha mai parlato.
- E certo, aveva fatto una stronzata… e se lo sapeva tua madre se lo mangiava. Ma ora nuoti?
Ho sollevato le spalle. – Sì.
- Non hai paura dell’acqua?
- No. Per un po’ ho fatto pure nuoto. Ma ho smesso, con l’acqua nelle orecchie non riesco a pensare. La odio la piscina.
Olivia ha spento la sigaretta nella scatola del tonno. – Qual è la cosa che odi di più al mondo?
Ce n’erano tante – Forse le feste a sorpresa. Due anni fa mia madre me ne ha fatta una. Tutta quella gente che mi faceva gli auguri. Un incubo. Pure il capodanno mi fa abbastanza schifo. E tu?
- Io… Fammi pensare. Io odio i matrimoni.
- Sì fanno schifo pure quelli.
Nella Bibbia fede e fiducia sono la stessa parola. La vera crisi del nostro tempo non sta nella mancanza di fede in Dio, ma nell’assenza di fiducia negli altri esseri umani. Non siamo ancora usciti da Auschwitz: la questione non è: dov’è Dio?, quanto piuttosto: dove sono l’uomo e la donna? Sorridere – e non irridere o deridere – è muovere tutti i muscoli del viso, spalancare gli occhi, aprire il volto, accogliere l’altro.