Quanto a me, io do a te, più che ai tuoi fratelli, un dorso di monte, che io ho conquistato (Genesi 48,22)
venerdì 24 gennaio 2003
venerdì 17 gennaio 2003
Tema della Giornata dell’ebraismo. 17 gennaio 2003
Mosè parlava con Dio e tutto il popolo fu testimone (cf.: Es 20,18)
La testimonianza dell’Esodo ci presenta Mosè come colui al quale Dio chiede di guidare il suo popolo dalla schiavitù alla libertà e come colui attraverso il quale viene donata la Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai. Secondo la tradizione rabbinica è proprio questo il momento in cui il popolo di Israele comprende il senso della particolare esperienza che sta vivendo e della vocazione a cui il Signore l’ha destinato “separandolo” dagli altri popoli: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6). Si tratta quindi di passare dalla servitù di Faraone al servizio del Signore che ha ascoltato il lamento del suo popolo oppresso e ha deciso di liberarlo rimanendo fedele alle sue promesse (cf.: Es 3,7-10 e Gen 12,1-4).
Ogni manifestazione di Dio è un evento trascendente di fronte al quale l’uomo è chiamato a riconoscerne la grandezza e la sproporzione rispetto alla propria creaturalità, per questo anche Mosè, a cui il Signore si rivela attraverso il roveto ardente, “nasconde la faccia” poiché teme di “guardare” verso di Lui (cf.: Es 3,6). Tuttavia è proprio Mosè ad essere definito dalla Scrittura e dalla tradizione rabbinica come colui al quale Dio concede una vicinanza e una “visione” della Sua trascendenza solitamente impossibile e pericolosa (cf.: Es 19,12 e 33,19-23; Esodo Rabbà XXVIII,6; Levitico Rabbà I,14), per questo egli può “salire” sul monte e “parlare” con il Signore che gli “risponde” con “una voce” alla quale “può reggere” (cf.: Es 19,19; Esodo Rabbà V,9). Tutto il popolo rimane invece ai piedi del Sinai ove comunque i segni della teofania sono evidenti: tuoni, lampi, nube densa, forte suono di tromba (cf.: Es 19,16), ma soprattutto fuoco: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace” (Es 19,18). Alcuni commenti colgono un particolare rapporto fra la parola del Signore che si rivela e il fuoco che accompagna tale rivelazione, caratteristica che la tradizione ritiene sia comune a molte teofanie (cf.: Es 3,26 e Gen 15,17) e alle parole stesse della Torà, come sottolineato in un autorevole commento al Deuteronomio che, a un certo punto, afferma: “infatti entrambi (fuoco e Torà) furono dati dal cielo ed entrambi sono eterni” (Sifrè Deuteronomio 143a). Siamo quindi di fronte ad un evento divino che, in questo modo, si dà una volta per sempre nell’orizzonte di una mediazione che coinvolge in maniera particolare Mosè, in quanto la rivelazione a lui concessa è la sorgente a cui tutti i profeti successivi hanno attinto: “Ciò che i profeti erano destinati a profetizzare alle generazioni avvenire lo ricevettero dal monte Sinai” (Esodo Rabbà XXVIII,6).
Il dono della Torà non solo è destinato a permanere nel tempo, ma è offerto per essere accolto e vissuto. La tradizione rabbinica, a tale proposito, sottolinea due aspetti importanti. Da una parte precisa che Dio si è espresso nelle “settanta lingue dell’umanità” in modo che tutti i popoli potessero comprendere (cf.: Esodo Rabbà V,9), dall’altra però fa notare che solo il popolo di Israele ha accolto i precetti rivelati nella prospettiva di un insegnamento per la vita (cf.: Sifrè al Deuteronomio, Pisqa 343).
La Scrittura infatti testimonia che tutto il popolo “vede” i segni della teofania sinaitica ed è testimone di ciò che Dio rivela a Mosè (cf.: Es 20,18), e tutto il popolo si impegna solennemente ad accogliere la Torà con la seguente affermazione: “Tutto ciò che il Signore ha detto/rivelato lo eseguiremo (n‘asè) e lo ascolteremo (wenishma‘)” (Es 24,7). Gli ebrei che pronunziano queste parole sono gli stessi che hanno appena vissuto un’esperienza di liberazione unica nel suo genere, e il Dio che li ha liberati mostrando la sua fedeltà alle promesse non può che volere il loro bene, per questo insegna come custodire il patto di Alleanza affinché il medesimo possa durare nel tempo. Per questo il Suo insegnamento va innanzitutto vissuto e, in questo contesto, “ascoltato”, cioè continuamente ricompreso e riconsiderato alla luce dei nuovi eventi della storia poiché, come la Torà stessa precisa, “non è più in cielo” ma nelle mani degli uomini affinché possano continuare a “scegliere la vita e il bene” (cf.: Dt 30,12-19). Tutto ciò implica la necessità di comprendere sempre più in profondità una parola che si dà agli uomini nei suoi percepibili molteplici aspetti. Nel Salmo 62 non a caso si legge: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Sal 62,12). La tradizione rabbinica insegna che da ciò si deduce che un versetto della Scrittura può avere diverse interpretazioni, che vanno intese come le scintille prodotte da un martello che spezza la roccia (cf.: Ger 23,29): ogni scintilla è il risultato del colpo di martello, e tutte sono vere pur nella loro diversità in quanto da un solo versetto della Scrittura possono derivare molteplici dottrine (cf.: Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a; Shabbath 88b). È pertanto importante che la tradizione continui a discutere e ad interrogarsi su come continuare a rimanere fedeli all’insegnamento di libertà del Sinai. Non a caso gli insegnamenti rabbinici, giocando sull’assonanza dei termini ebraici charut (inciso) e cherut (libertà), insegnano a considerare i precetti della Torà “libertà” su tavole anziché prassi “incisa” su tavole (cf.: Mishnà, Avot VI,2), ribadendo così che l’insegnamento rivelato va accolto e vissuto in quanto proveniente dall’unico Dio capace di liberare e di trasformare una storia anonima e perdente in storia di salvezza.
Ecco allora ciò di cui il popolo ebraico è ancora oggi testimone fra le genti: una libertà che porta all’impegno nella fedeltà al dono della Torà ricevuta attraverso Mosè capace di “parlare con Dio”, rivelazione che, come ben ricorda Elia Benamozegh, comprende anche i precetti dati da Dio a Noè dopo il diluvio, i quali costituiscono l’insegnamento per i “giusti” come lui, cioè i “gentili amati da Dio i cui meriti fanno la prosperità fra le nazioni” (cf.: E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, pp.209-240).
Giuseppe Laras
Rabbino capo della Comunità ebraica di Milano
Il tema di quest’anno ci propone un colloquio tra Dio e Israele. In realtà a parlare con Dio è Mosè che gode del dono di una vicinanza e una “visione” della trascendenza divina solitamente impossibili e pericolose (cf Es 19,12; 33,19-23; Esodo Rabbà XXVIII,6; Levitico Rabbà I,14). L’intero popolo è testimone di questo colloquio che sancisce l’alleanza (berit) tra Dio e Israele: alla consacrazione o separazione divina, che distingue i discendenti di Abramo da tutti gli altri popoli, deve corrispondere una scelta di vita santa nel continuo ascolto degli insegnamenti rivelati. L’espressione “se vorrete ascoltare” utilizza la stessa radice verbale ebraica (sh-m-‘) della professione di fede ebraica: “Ascolta (shema‘) Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno!” (Dt 6,4). Pertanto il servizio sacerdotale di Israele fra le genti è l’ascolto attivo e la custodia dell’insegnamento rivelato. Per questo tutto il popolo è radunato ai piedi del Sinai dopo l’uscita dall’Egitto: uomini, donne e bambini sono tutti chiamati all’impegno attraverso il proprio assenso (Es 19,16). Dio propone una santità secondo l’esortazione levitica: “Sarete santi, perché Io, il Signore, Dio vostro, sono Santo” (Lv 19,2). Il verbo al futuro “sarete” esprime una tensione e l’idea di una meta da raggiungere. Non a caso Gesù nel “discorso della montagna” afferma di non essere venuto ad abolire la Torà ma a darle pienezza (cf Mt 5,17-19): infatti i doni divini sono irrevocabili (cf Rm 9-11).
Il dono della Torà è offerto a Israele e a tutta l’umanità. C’è un commento rabbinico che coglie l’universalità della rivelazione sinaitica nel passo “tutto il popolo vedeva le voci” (Es 20,18) esplicitandola così: “Perché ‘le voci’? Perché la voce del Signore si trasformava in sette suoni e da questi nelle settanta lingue, affinché tutti i popoli potessero comprendere” (Esodo Rabbà V,9). Tale divisione secondo un numero che nella Bibbia indica universalità ha come orizzonte l’umanità intera secondo la dinamica biblica della relazione e della reciprocità. Nel rapporto fra Israele e Dio la mediazione di Mosè avviene secondo l’espressione: “Mosè parlava e il Signore rispondeva con una voce” (Es 19,19). Nel testo masoretico la forma verbale intensiva (iedabber) sottolinea il carattere autorevole e rivelativo della parola di Mosè che media “una voce” di Dio capace di trasformarsi in settanta lingue affinché tutta l’umanità possa comprenderne il senso. Nella tradizione rabbinica postbiblica il dono dell’unica Torà sul Sinai è universale perché duplice: il giudaismo infatti prevede 613 mitzwot (precetti) per gli ebrei e 7 precetti noachidi (cioè dati da Dio a Noè dopo il diluvio) per tutti i non ebrei (cf E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, pp.181-277 ). Nel Libro dei giubilei (II sec. a.C.) la Pentecoste ebraica è considerata memoriale dell’alleanza tra Dio e Noè per tutta l’umanità e non solo per gli ebrei (cf J.J. Petuchowski, Le feste del Signore, pp.47-48 ).
Proprio durante la Pentecoste ebraica la chiesa madre di Gerusalemme si trova riunita nel Cenacolo (Atti 2). Ci sono i dodici apostoli (con Mattia al posto di Giuda), Maria, madre di Gesù, e altre donne. Gli apostoli, dodici come le tribù di Israele, alludono all’intero popolo che era ai piedi del monte Sinai (Es 19,16-18) e alcuni elementi comuni ai due testi - vento, fuoco, rumore, nube, fumo - indicano la manifestazione di Dio (teofania). I giudei e prosèliti che negli Atti provengono “da tutte le nazioni del mondo” corrispondono alle “settanta lingue” della parola di Dio sul Sinai. Le settanta lingue parlano di un messaggio che raggiunge “gli estremi confini della terra”: l’unica parola di Dio è rivolta a tutti i (settanta) popoli o nazioni del mondo. Israele, che come primogenito riceve questa Parola, è chiamato, nell’osservanza dei 613 precetti, a preservare la propria particolarità per essere “luce delle Genti” e offrire così una testimonianza universale. Le Genti, che vengono raggiunte dalla parola di Dio fatta carne in Gesù, sono chiamate a “tradurre” l’unica e universale Parola nelle rispettive e particolari culture. Unica è la Parola, unica è la polarità particolare-universale, diversa e speculare è la prospettiva “missionaria” di Israele e delle Genti. Il tema della Giornata ci offre la preziosa possibilità di leggere proprio in questa prospettiva il recente documento della Pontificia commissione biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (LEV, Città del Vaticano 2001).
Poiché la Torà “non è più in cielo” ma è “molto vicina” all’umanità affinché possa eseguirla (cf Dt 30,12-14) è compito di ogni uomo e di ogni donna ricercarne tutti i possibili sensi. Se, da una parte, è importante che la tradizione stabilisca dei criteri interpretativi e riconosca chi ha particolare autorità nell’applicarli alla parola rivelata, dall’altra è fondamentale che ogni persona, con la propria unicità, possa portare il proprio contributo nell’orizzonte di una dialettica aperta. In altri termini: se un uomo o una donna non nascono, un senso della Scrittura non viene svelato (cf E. Lévinas, La Révélation dans la tradition juive, in Aa.Vv., La révelation, Bruxelles 1977, pp.56-60). Ecco perché è importante che tutti possano “vedere” le voci, che tutti possano “fare e ascoltare” secondo le proprie possibilità, magari anche attraverso relazioni significative, così come è accaduto a Ruth, la moabita che nel rapporto con la suocera ebrea Noemi incontra il Dio di Israele e diviene una figura importante all’interno della discendenza davidica (cf Rt 4,13-22). Non a caso la tradizione ebraica legge il libro che testimonia la sua vicenda proprio a Pentecoste, nel giorno in cui si fa memoria della rivelazione sinaitica. Saper “vedere” la parola/evento di Dio significa allora impegnare tutte le potenzialità umane: ascolto, azione, razionalità per rendere visibili nella storia i molteplici segni della verità che è la meta finale a cui tutti tendiamo e nei confronti della quale tutti siamo in qualche modo responsabili.
Nell’ottica della Giornata dell’ebraismo ci siamo messi in ascolto di quanto la tradizione ebraica può offrire alla nostra spiritualità cristiana, anche se non parla di Gesù Cristo. La nostra fede in Gesù nostro Signore e unico Salvatore può solo approfondirsi quando scopriamo la ricchezza e l’apertura della prospettiva ebraica che il Nazareno condivise con il suo popolo.
Gianfranco Bottoni
Responsabile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso
Arcidiocesi di Milano
Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret
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