lunedì 17 gennaio 2000

Giornata dell'ebraismo. 17 gennaio 2000. Sussidio pastorale a cura del Gruppo Teshuvà

 

Presentazione della giornata dell’ebraismo

 

La Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha indetto a partire dal 1990 la celebrazione di una giornata, da celebrarsi il 17 gennaio di ogni anno, dedicata a conoscere il popolo ebraico e ad approfondire le relazioni con esso. Perché una giornata particolare dedicata ai rapporti con gli ebrei? Anzitutto per far sì che l'atteggiamento dei cristiani nei riguardi degli ebrei sia improntato a rispetto e ad amore, come vuole il Vangelo, e non a invidia, rancore e addirittura disprezzo, come si è purtroppo verificato nel corso dei secoli; inoltre per ricordare che le riflessioni del Concilio Vaticano II non devono restare sulla carta, ma devono permeare la vita delle nostre comunità.

"Scrutando il mistero della Chiesa questo Sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo": così inizia il paragrafo n. 4 della dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della chiesa cattolica con le religioni non cristiane (1965). Il concilio riconosce che per la Chiesa il rapporto con gli ebrei non è facoltativo, ma, al contrario, non è possibile parlare della Chiesa, nella sua essenza di mistero di relazione con Dio, prescindendo da Israele, anch’esso mistero di relazione profonda con Dio e destinatario della sua Parola. Infatti Israele è nato come popolo proprio per scelta di Dio che, come dice la Bibbia, lo ha chiamato ad essere suo popolo, sua proprietà, suo alleato (cf Esodo 19,5; Levitico 26,12; Deuteronomio 4,20; 7,6; 26,18).

I documenti di applicazione di Nostra Aetate n.4, redatti dalla Commissione per i rapporti con l'ebraismo che fa parte del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, indicano le linee portanti del lavoro che le comunità cristiane devono fare a tutti i livelli, fedeli e pastori compresi. Questi documenti sono: Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione di Nostra aetate n. 4 (1974) e Sussidi per una corretta presentazione di ebrei ed ebraismo nella catechesi e nella predicazione della chiesa cattolica (1985).

A Milano abbiamo l'autorevole e competente insegnamento del nostro Arcivescovo. Alcuni suoi significativi interventi sono stati raccolti in un piccolo volume intitolato Israele, radice santa (Vita e Pensiero, Milano 1993). Qui il cardinale Carlo Maria Martini sottolinea la valenza pastorale dell'incontro tra cristiani ed ebrei. Come studioso egli si è occupato di questo rapporto soprattutto dal punto di vista sociale e culturale. Senza negare questi piani, egli afferma che nella pastorale: "Non si tratta di discutere tra studiosi specialisti sui rapporti tra ebrei e cristiani, ma piuttosto di trovare dei punti di riferimento per il popolo di Dio, anche perché il problema si è fatto più preciso e decisivo per il futuro della stessa Chiesa. La posta in gioco non è semplicemente la continuazione vitale di un dialogo, bensì l'acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne derivano per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo di oggi" (op. cit., pp. 37s). Nella lettera pastorale Ritorno al Padre di tutti (Centro Ambrosiano, Milano 1998) il cardinale Martini propone le seguenti domande: “Come vivo il mio rapporto con la fede di Israele, santa radice del mio essere cristiano? Come mi rapporto al popolo dell'alleanza mai revocata, gli ebrei? Come celebriamo il 17 gennaio?”. Noi possiamo aggiungere: "Ho risposto a queste domande? Come risponderò nel 2000?”. La celebrazione del 17 gennaio è, come si capisce, solo l'occasione per ricordare l’impegno in un lavoro di studio e di purificazione dei nostri vecchi atteggiamenti nei riguardi degli ebrei: impegno che deve durare tutto l’anno quando leggiamo la Bibbia, celebriamo le liturgie, pronunciamo le omelie, insegniamo o studiamo il catechismo.

“Il Dio delle benedizioni nella tradizione di Israele”

 

Introduzione al tema del 17 gennaio 2000

 

La CEI ha scelto per la giornata del 17 gennaio 2000 il tema Il Dio delle benedizioni nella tradizione di Israele. Il riferimento particolare è al passo biblico di Deuteronomio 28,6: "Benedetto tu sia nel tuo entrare, benedetto tu sia nel tuo uscire”. La CEI, nel presentare il tema della giornata, suggerisce che tale riferimento reca a noi l'augurio che nel nostro “uscire” (dal presente millennio) e nel nostro “entrare” (nel nuovo millennio) possiamo essere accompagnati dalle benedizioni dell’Eterno. Parlare di "benedizione" ai nostri giorni può forse sembrare strano, irreale. La terra sulla quale viviamo e ci muoviamo sembra alquanto inospitale, vittima di sistemi ingiusti, degradata dal desiderio insaziabile che hanno gli esseri umani di possedere, di affermare loro stessi. In questo contesto il concetto di benedizione, con la pienezza di bene, di felicità, di armonia che lo contraddistingue, potrebbe apparire inadeguato. Tuttavia il senso della benedizione, attinente alla fede e comune agli ebrei e ai cristiani, è profondamente legato al nostro quotidiano: al rispetto della creazione, al senso della vita, alla giustizia e alla condivisione dei beni della terra; esso pervade tutti i nostri umani comportamenti.

Benedire Dio è riconoscere in Lui il solo e unico proprietario della terra e dei suoi beni, è aprirci alla giustizia e alla gratuità dei suoi doni, è riconoscerci, in quanto esseri umani, nella verità dei nostri limiti. Benedire Dio è pure operare in modo tale che il mondo possa ritrovare la sua primordiale intenzionalità, quella della bontà. Il senso profondo della “benedizione” può farci scoprire la necessità di una “teshuvà”, cioè di un pentimento, di un “ritorno” in grado di ri-orientare il nostro cammino. Solo così potremo finalmente vivere nel terzo millennio le dimensioni liberatorie della benedizione.

 

Sussidio per una catechesi sulla benedizione

 

In ebraico un’unica radice (BRK) indica tutte le forme della benedizione: il verbo barakh (benedire), il sostantivo berakhà (benedizione) e l’aggettivo barukh (benedetto). Il Dio di Israele è un Dio che benedice, cioè che comunica la propria vita e la diffonde in abbondanza sulle sue creature. Le sue benedizioni scendono sulle persone e sul mondo intero: “Il Signore ordinerà alla benedizione di essere con te nei tuoi granai e in tutto ciò a cui metterai mano; ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti" (Deuteronomio 28,8); “Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza per amore di Abramo mio servo" (Genesi 26,24).

La storia dell’umanità inizia con una benedizione discendente: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò! Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Genesi 1,27-28). Fin dall’inizio della creazione la benedizione di Dio vale per tutta l’umanità. Essa consiste nel fatto che Dio concede agli uomini e a tutti gli esseri viventi la forza della fertilità e della crescita e pone l’uomo come “custode” del mondo. Pure la storia di Israele comincia con una benedizione discendente su Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12,1-3). Dio benedice coloro che si è scelto e tutti gli altri a motivo di costoro. C'è una stretta connessione tra l’operato dell'uomo e l'azione salvifica di Dio. Così Dio parla ad Abramo dopo la prova del sacrificio di Isacco: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare… Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Genesi 22,15-17).

Nella Bibbia e nella tradizione ebraica prevalgono le benedizioni ascendenti. Sono gli esseri umani che lodano, ringraziano, parlano bene di Dio (lo bene-dicono): “Benedetto il Signore, Dio di Israele, egli solo compie prodigi. E benedetto il suo nome glorioso per sempre, della sua gloria sia piena tutta la terra" (Salmo 72,18-19). Le benedizioni ascendenti accompagnano tutti gli atti della vita quotidiana: mangiare un pezzo di pane, bere il vino, annusare un profumo. Avviene lo stesso per le prescrizioni della Torà: accendere i lumi del Sabato, lavarsi le mani ed altre ancora che accompagnano eventi importanti. Tali benedizioni sono sempre introdotte dalla formula: “Benedetto sei Tu, Signore, re dell'universo”, per poi terminare, a seconda dei casi, con: "Colui che fa uscire il pane dalla terra”; "Colui che crea il frutto della vite''; “Colui che ci santifica con i suoi precetti". La benedizione riguarda ogni aspetto della vita: “Benedetto sei Tu, Signore, re dell'universo, Colui che con la sua parola fece esistere ogni cosa". Si benedice Dio per ogni evento e per le novità: "Benedetto sei Tu, Signore, re dell'universo, Colui che ci ha conservati in vita, ci ha mantenuti e ci ha fatti giungere a questo giorno". C’è una benedizione per l’arcobaleno che fa memoria a Dio dell’alleanza stipulata con tutto il genere umano dopo il diluvio: “Benedetto sei Tu, Signore, re dell'universo, Colui che ricorda l'alleanza ed è ad essa fedele, mantenendo la sua parola!”. Dio viene benedetto anche ogni volta che ci si trova di fronte un “sapiente delle nazioni” (cioè una persona saggia che non appartiene al popolo ebraico): "Benedetto sei tu, Signore, re dell’universo, Colui che è buono e fa del bene!".

I pellegrini dell’epoca biblica, giunti negli atri del tempio di Gerusalemme, esprimevano la loro gioia e i loro auspici con i canti delle ascensioni: "Alzate le mani verso il tempio e benedite il Signore. Da Sion ti benedirà il Signore, che ha fatto cielo e terra" (Salmo 134,2-3). La benedizione è dunque soggetta a questo doppio movimento: l'uomo benedice Dio (benedizione ascendente) e Dio benedice l'uomo (benedizione discendente). Benedire Dio significa riconoscere la sua sovranità sull'universo. Egli ha creato il mondo per l'uomo e la donna e continua ad agire per il loro bene. Ci si rivolge a Dio in ogni occasione possibile per benedire colui che è la sorgente di tutto ciò che è buono: il tempo, la creazione, la vita, sono doni rinnovati ogni giorno. Così facendo le benedizioni divengono luci che illuminano i tempi…

I maestri della tradizione ebraica raccomandano di benedire Dio in ogni occasione: al principio di una notte, di un giorno, di un lavoro, contemplando la natura, un'opera manuale o scientifica ben riuscita. Anche di fronte alle domande suscitate dalla sofferenza, dal male, dalla morte Dio è riconosciuto come “Colui che conosce il senso” e davanti al quale non si può che "piegare le ginocchia" e “benedire”. Attraverso le benedizioni per le situazioni e le circostanze più diverse, per tutte le azioni e gli oggetti, l'ebraismo sottolinea la consacrazione di tutta l’esistenza secondo una spiritualità per cui religione e vita quotidiana sono intimamente unite. La formula introduttiva “Benedetto sei Tu, Signore, re dell'universo, Colui che…" passando dalla seconda alla terza persona singolare, da un “tu” a un “egli”, indica sia la prossimità che la distanza di Dio nel suo rapporto con le persone.

Dunque l’ebraismo oggi ricorda a noi cristiani l’importanza della benedizione e ci suggerisce di “gustare” le “cose di questo mondo” solo dopo avere pronunciato una benedizione, poiché è detto: “Del Signore è la terra e quanto contiene, l'universo e i suoi abitanti" (Salmo 24,1). Nel Talmud troviamo questo detto alquanto significativo: “Chiunque si rallegra dei beni di questo mondo senza pronunciare una benedizione, profana una cosa santa” (Berakhoth 35a). Attraverso la benedizione tutte le azioni compiute, come pure tutti i beni dei quali si è goduto, vengono orientati a Dio e acquistano un’impronta di santità. Fanno meditare sui doni ricevuti e sul significato delle azioni compiute. Così, attraverso il quotidiano della propria esistenza, ogni ebreo si rende presente a Dio e rende Dio presente al mondo. Questo è il senso vero e profondo del versetto delle Scritture: "Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono Santo” (Levitico 19,2).

Anche Gesù, nell'ultima cena, pronunciò la benedizione sul pane e sul vino prima di mangiare e bere: "Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli... Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo..." (Matteo 26, 26-27). E' quindi con il rito della berakhà, della benedizione ebraica, che Gesù istituisce l'Eucaristia. Ed è ancora con lo stesso rito che i sacerdoti, sparsi nei quattro angoli della terra, celebrano oggi l'Eucaristia e la concludono con l'invocazione di una benedizione per tutti i partecipanti: "La benedizione di Dio onnipotente scenda su di voi e con voi rimanga sempre".

 

Note per un commento omiletico

alle letture della Liturgia della Parola (17 gennaio 2000)

(La parte in grassetto può essere utilizzata come didascalia introduttiva)

 

Prima lettura (Genesi 22,15-18)

La benedizione ad Abramo del capitolo 22 della Genesi è posta al termine di un lungo cammino che il patriarca compie con Dio. All'inizio c'è la chiamata e la promessa: "Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". Si tratta di una libera e gratuita scelta di Dio, che benedice un uomo e lo rende mediatore della sua benedizione verso tutta l’umanità. Dio, però, chiede una risposta che per Abramo è assai difficile e faticosa. La risposta di fede di Abramo viene premiata con il rinnovo della benedizione e della promessa a cui Dio ormai si è legato per sempre. Per estendere la sua benedizione alle genti Dio sceglie come mediatore la discendenza di Abramo, vale a dire il popolo di Israele, vivente ancora oggi: "Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra”.

 

Seconda lettura (Deuteronomio 28,1-10)

Il brano del Deuteronomio mette in relazione le benedizioni di Dio al popolo che sta per entrare in possesso della terra, con l’obbedienza ai precetti divini. La prosperità e la pace non sono frutto di calcoli politici, ma dono di Dio legato alla messa in pratica della sua parola. Dio ha scelto Israele di sua iniziativa, traendolo fuori dall'Egitto, non per i suoi meriti, ma per il "giuramento fatto ai padri". Quando Dio gli ha donato la Torà, Israele l’ha accettata: “Tutto il popolo rispose insieme e disse: tutto quanto il Signore ha detto, noi lo faremo" (Esodo 19,8). Nel momento di entrare in possesso della terra Dio chiede a Israele coerenza e lega la benedizione sulla terra alla sua risposta. La mancata risposta da parte di Israele può comportare la perdita della pace, della prosperità e della terra stessa, ma non intacca più l’alleanza. Israele resta “popolo consacrato” per sempre, perché questo è il giuramento che Dio ha fatto ai padri. La traduzione di Deuteronomio 28,9: “il Signore ti renderà popolo a lui consacrato" è meglio resa, secondo il testo ebraico, con “ti stabilirà”, nel senso che il Signore darà seguito in maniera stabile e continuativa ai beni legati alla sua alleanza solo se Israele sarà fedele nel mettere in pratica i precetti. L'alleanza non viene meno; premi e castighi sono un incentivo e un continuo richiamo alla teshuvà (ritorno a Dio) offerta dalla misericordia divina.

 

Cantico evangelico (Luca 1,68-79)

Nell’inno che l’evangelista mette in bocca a Zaccaria, abbiamo un esempio eloquente della “benedizione” che sale verso Dio, considerato fonte di ogni benedizione che dà vita, pace e prosperità. Qui non si ringrazia per dei beni materiali, ma si ricorda la promessa di salvezza del Signore “giurata al padri". Tale promessa è di “servire Dio in santità e giustizia”: vale a dire, in termini ebraici, mettere in pratica la Torà senza timore di essere perseguitati per questo. Abbiamo qui bene interpretata una corrente del pensiero messianico ebraico che era già presente ai tempi di Gesù. Secondo questa corrente l’inizio del tempo messianico è caratterizzato dalla pace e dalla libertà, premesse indispensabili per mettere in pratica tutti i precetti del Signore. Nella benedizione del Vangelo si ringrazia come se questa realtà di pace, che permette di seguire in tutto i comandi del Signore, fosse già pienamente realizzata. In realtà si è ancora lontani dal suo pieno compimento, ma chi prega esprime la piena fiducia nella fedeltà del Signore alla sua promessa. Una domanda si pone a noi che leggiamo questi testi: quante volte e per quanto tempo non abbiamo capito il desiderio di Israele di servire Dio secondo la sua vocazione? E' venuto il momento del pentimento, del cambiamento radicale, la teshuvà. Riponendo la nostra fiducia nella fedeltà e nella misericordia di Dio, possiamo elevare con Israele l'invocazione: "Dio abbia pietà di noi e ci benedica".

sabato 15 gennaio 2000

Perché siamo qui oggi. Messaggio alla Comunità ebraica di Milano. Gruppo interconfessionale Teshuvà

 




Discorso di mons. Francesco Coccopalmerio. Sinagoga maggiore di Milano. 15 gennaio 2000. Giornata dell’ebraismo

 

Il Dio delle benedizioni nella tradizione d’Israele (Numeri 6,24-27)

 

Desidero innanzitutto ringraziare il Rabbino Capo Giuseppe Laras, il Presidente Emanuele Fiano e i Consiglieri della Comunità ebraica di Milano, i Signori Rabbini e gli amici ebrei qui presenti per la loro calorosa accoglienza e la loro significativa testimonianza.

E’ un ringraziamento che formulo a nome di tutti i cristiani qui riuniti e, soprattutto, a nome dell’Arcivescovo Card. Carlo Maria Martini, che lo scorso novembre a Gerusalemme aveva già pubblicamente espresso la sua intenzione di partecipare a questo incontro, al quale ha dovuto successivamente rinunciare con molto rincrescimento a motivo di un altro impegno pastorale inderogabile.

 

1.

Come ha già ricordato Gioachino Pistone in rappresentanza del Gruppo Teshuvà, noi cristiani della Chiesa cattolica ambrosiana e di altre Chiese cristiane siamo qui convenuti per metterci in ascolto di Israele.

 

Voi, cari fratelli del popolo dell’alleanza mai revocata, rappresentate per noi, questa sera, Israele, che prega (concludendo il giorno benedetto dello Shabbat) e che accoglie noi, che siamo le genti, per donare (come abbiamo appena udito dalla voce di Rav Laras) la testimonianza della propria fede nel “Benedetto, il Dio Uno e Unico, Signore del cielo e della terra”, che benedice i suoi figli e il cui santo Nome deve essere sempre benedetto nelle più svariate situazioni della vita.

Grazie a Lei, eccellentissimo e carissimo Rav Laras, per la Sua parola sempre ricca di dottrina e di sapienza, che ci aiuta a vivere con più consapevolezza il significato della berakhà, della benedizione, significato che è costitutivo anche dell’esperienza religiosa cristiana.

 

Le nostre due tradizioni hanno infatti in comune la fede nel Dio delle benedizioni.  Poiché, tuttavia, nella sensibilità dei cristiani con il termine “benedizione” si intende più spontaneamente la benedizione che scende da Dio sugli uomini che non quella che si eleva dagli uomini da Dio, il Rabbino Laras ha insistito sul primo aspetto, in particolare commentando la benedizione dei sacerdoti in Numeri 6,22-27.

Ed è altresì importante che quest’anno i Vescovi italiani abbiano voluto anche la continuità tematica tra la Giornata dell’ebraismo (17 gennaio), in cui si riflette su Il Dio delle benedizioni secondo la tradizione ebraica, la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio) sul tema tratto dal prologo della lettera agli Efesini Benedetto sia Dio... che ci ha benedetti in Cristo. 

 

2.

Ancora una volta, e particolarmente nell’anno in cui i discepoli di Gesù Cristo fanno solenne memoria della nascita del loro Signore, è importante notare la profonda relazione che intercorre tra le due suddette celebrazioni. Notare, cioè, che la Giornata dell’ebraismo e la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani sono collocate l’una accanto all’altra e notare precisamente che la Giornata dell’Ebraismo si celebra prima della Settimana di preghiera. Per quale motivo?  Per il fatto che la Chiesa di Gesù - come ci ricorda Giovanni Paolo II - è legata, “a livello della sua stessa identità”, con il popolo ebraico. Ciò determina che la nostra teshuvà nei confronti degli ebrei sia preliminare alla ricerca di riconciliazione all’interno della cristianità. 

D’altronde la cristianità si divise nella misura in cui si affievolirono o addirittura si recisero i contatti con le fonti bibliche e con la “radice santa”, che è e resta Israele.

 

Al termine di questo secondo millennio dell’era cristiana, nel nostro animo sentiamo come improrogabile l’imperativo di riconoscere ad alta voce la comune colpa dei cristiani che nella loro storia si sono, almeno in parte, allontanati dalle fonti bibliche e dalle radici ebraiche che stanno all’origine del cristianesimo.

Il prezzo più alto di questa nostra colpa è stato pagato dal popolo ebraico.

Pregiudizi antigiudaici e una secolare “cultura del disprezzo” pesano sulla coscienza cristiana almeno da quando ci siamo resi conto che hanno contribuito ad alimentare e a non estirpare la follia dell’antisemitismo che portò alla tragedia della Shoah.

La coscienza di un cristiano come Dietrich Bonhoeffer, affermava: “Solo chi grida per gli Ebrei ha il diritto di cantare il gregoriano”. Anche noi oggi sentiamo l’esigenza che solo chi interpreta il grido che si eleva da un popolo ingiustamente accusato e per secoli perseguitato può cantare e benedire Dio.

 

Quante false accuse sono state rivolte a Voi, cari Fratelli, in questi duemila anni, anche - purtroppo -  da parte di persone che credevano di essere in buona fede. 

Tra tutte queste false accuse, quella di “deicidio”, assurda e anzi volgare, assolutamente ripugnante alla nostra sensibilità e in contraddizione patente con la vera dottrina cristiana, per la quale, invece, sono stati i nostri peccati a far morire sulla croce Gesù.

 

A voi, cari Fratelli ebrei, voglio esprimere la convinzione che tante incomprensioni tra noi possono cadere non perché ci facciamo delle reciproche concessioni in una irenica pratica del dialogo, ma perché ci sforziamo di essere più autenticamente fedeli a Dio e alla sua Parola.

Infatti, pur nella diversità delle nostre tradizioni e dei nostri itinerari religiosi, abbiamo in comune la fede nell’unico Dio e la speranza nella sua Signoria.

 

Concludo presentando a Lei, carissimo Rabbino Capo, un piccolo segno del nostro lavoro e del nostro affetto:

·      il materiale preparato e divulgato capillarmente nella Diocesi di Milano per la prossima Giornata dell’ebraismo;

·      un albo fotografico a ricordo del nostro primo incontro qui in Sinagoga esattamente un anno fa;

·      e, infine, l’attestazione del contributo che l’Arcidiocesi di Milano ha versato al Keren Kayemeth Leisrael (Fondo Nazionale Ebraico) per la piantagione di un giardino di 100 alberi in Israele.

 

Abbiamo pensato di intitolare questo giardino alla memoria di un evento importante per i nostri rapporti ebraico-cristiani: il primo incontro pubblico, nella storia di Milano, tra un Arcivescovo e  un Rabbino Capo.

In occasione del XXV° anniversario della pubblicazione di Nostra Aetate, il documento del Concilio Vaticano II, sui rapporti della Chiesa cattolica con le altre religioni, si incontrarono  il 16 ottobre 1990, presso la Fondazione Ambrosianeum, il Card. Carlo M. Martini e il Prof. Giuseppe Laras.

Sono trascorsi dieci anni da quell’incontro. In quell’occasione l’Arcivescovo Martini illustrò Il cammino che ci attende e questo cammino sta portando i suoi primi frutti: i due incontri qui in Sinagoga sono frutto di quel passo storico che Lei, Rav Laras, e l’Arcivescovo faceste insieme.

Ci è parso significativo esprimerlo intitolando, nella “terra santa”, da entrambi amata, un nuovo giardino alla esplicita memoria di quell’evento storico.

 

Milano, 15 gennaio 2000

 

Il discorso della montagna (Matteo 5) di Gesù di Nazaret

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