Il 17 gennaio ultimo scorso si è svolta la XXXVI Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) a partire dal 1990. In accordo con l’Assemblea dei Rabbini d’Italia (ARI) il tema da trattare, dopo un triennio sui profeti (Geremia, Isaia, Ezechiele) dal 2022 al 2024, sarebbe stato il 60° anniversario della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Ecumenico Vaticano II. A sorpresa il tema proposto dall’ARI, in occasione del Giubileo cattolico del 2025 che ha per tema Pellegrini di speranza (Peregrinantes in spem), è stato appunto il Giubileo. L’ARI, trattando questioni quali la terra e la giustizia sociale, ha ribadito che: “In Terra d’Israele il terreno non è di proprietà di alcun essere umano, perché quella terra appartiene al Signore e chi ci vive è per definizione straniero e residente in essa”. Rav Alfonso Arbib, presidente dell’ARI, in un incontro pubblico a Milano ha specificato: “Il Giubileo è qualcosa di terreno, perché riguarda la terra, che può essere osservato solo in terra di Israele. E proprio la sua inosservanza, come quella degli anni sabbatici da parte del popolo ebraico, è una delle motivazioni dell’esilio”. La CEI ha privilegiato la tematica dell’attesa: “La speranza si genera innanzitutto stabilendo relazioni fraterne. Il Giubileo sarà un cammino di speranza se stimolerà vie di riconciliazione e perdono”. Il messaggio della Commissione episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI terminava con un paragrafo sulla Nostra Aetate.
Rispetto agli anni precedenti nelle Chiese locali la preparazione della Giornata è stata vissuta con maggiore imbarazzo. Alcune Diocesi hanno deciso di non promuovere alcuna iniziativa per evitare fraintendimenti e contestazioni. La CEI commentava nel suo messaggio: “In questi ultimi tempi, segnati dal tragico atto terroristico del 7 ottobre 2023, dalla guerra successiva e dall’escalation del conflitto in Medio Oriente, i rapporti tra cattolici ed ebrei, in Italia, sono stati difficili con momenti di sospetto, incomprensioni e pregiudizi. Ma il dialogo non si è interrotto”. Proprio in occasione della Giornata l’ARI ha indirizzato una lettera ai Vescovi italiani in cui, pur riconoscendo l’esistenza di rapporti proficui di collaborazione soprattutto a livello locale, ha evidenziato il momento di crisi profonda del dialogo: “La Chiesa cattolica ha legittimamente espresso una profonda empatia nei confronti della popolazione palestinese, una popolazione che vive indubbiamente una tragedia causata da una guerra iniziata su iniziativa di Hamas il 7 ottobre 2023, seguita dalla reazione israeliana, tragedia che nelle nostre preghiere auspichiamo possa finire quanto prima”. Tuttavia: “Sconcerta che non provochi scandalo la minaccia che non data da oggi di distruggere interamente una nazione (ricordiamo l’orologio di Teheran che segnerebbe gli ultimi giorni di Israele) e potrebbe portare allo sterminio di milioni di ebrei”.
Nel frattempo le Chiese Cristiane d’Europa, di tutte le confessioni, erano impegnate nella revisione della Charta Oecumenica firmata nel 2001 dal CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese che raccoglie ortodossi e protestanti) e dal CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee che rappresenta i cattolici). La presentazione della nuova Charta era originariamente prevista dal 26 al 27 aprile a Vilnius in Lituania. L’evento è stato posticipato per la morte di papa Francesco ad una data al momento non ancora resa nota. Colpisce tuttavia trovare nella bozza soggetta a revisione, al paragrafo n.° 7 (Strengthening Community with Judaism), affermazioni quali: “Il popolo ebraico non è mai stato sostituito dalla Chiesa, la Bibbia ebraica non è mai stata sostituita dal Nuovo Testamento e la prima Alleanza non è mai stata sostituita da quella nuova. Non sono mai state sostituite, ma compiute/adempiute (fulfilled)”. Più correttamente Nostra Aetate si esprimeva così: “Mentre approfondiamo il mistero della Chiesa, ricordiamo il legame che unisce spiritualmente il popolo della Nuova Alleanza alla stirpe di Abramo”. Oppure ancora: “Possiamo adorare Dio e pregare insieme, condividendo non solo le stesse Scritture (the same Scriptures) ma anche la loro comprensione (their understanding)”. Non sarebbe meglio affermare che condividiamo “una parte significativa” delle Scritture e che “riceviamo nutrimento reciproco” dalle nostre diverse interpretazioni?
A proposito del lutto che ha colpito la Chiesa Cattolica Romana, non è facile fare un bilancio del pontificato di papa Francesco per quanto concerne i rapporti tra ebrei e cristiani. Certamente Jorge Maria Bergoglio ha ha coltivato rapporti di sincera amicizia con personalità del mondo ebraico, dal rabbino Abraham Skorka ai tempi di Buenos Aires, fino a rav Riccardo Di Segni da vescovo di Roma. Ha visitato – terzo papa – la sinagoga della capitale, si è recato in Israele e ha condannato l’antisemitismo. D’altro canto, pur avendo chiesto ai ricercatori di lavorare per una visione più corretta, nelle sue omelie si è più volte espresso in termini negativi sulla legge ebraica e sui farisei. Ha certamente avuto il merito di aprire l’archivio apostolico ai ricercatori per fare luce sugli anni della Shoah. Da parte ebraica gli si rimprovera la vicinanza al mondo islamico e l’utilizzo del termine “genocidio” per descrivere la guerra in atto in Medio Oriente. Le sue quotidiane telefonate al parroco di Gaza mostrano bene la sua visione del mondo come polarità tra ricchi e poveri e la sua identificazione con il buon samaritano della nota parabola evangelica. Rav Giuseppe Laras z.l., a cui la Rassegna Mensile di Israele ha appena dedicato un numero speciale, in una conferenza al Collegio Rabbinico Italiano ebbe a dire: “Francesco non cerca l’applauso del consenso, ma la verità dell’incontro. Non cancella le differenze, le onora”. Lo stesso Laras più tardi rileverà tuttavia che nelle omelie il Pontefice “impiega proprio la vecchia e inveterata struttura (di descrivere negativamente l’ebraismo) e le sue espressioni”.
Allo stesso modo è impossibile prevedere se e come qualcosa cambierà con l’elezione di Leone XIV. Certamente questo “figlio di sant’Agostino”, per usare una formula da lui stesso pronunciata nel suo primo saluto da papa, metterà al centro della sua propria modalità di esercizio del ministero il pensiero del vescovo di Ippona. L’ha già fatto nei suoi incarichi precedenti e non potrà esimersi dal farlo anche nella sua nuova veste. Per questo abbiamo chiesto a Juan Antonio Cabrera Montero, sacerdote dell’ordine di sant’Agostino nonché docente di teologia presso la Pontificia Università Lateranense, e a Guido Innocenzo Gargano, monaco camaldolese già docente di teologia patristica e tra i fondatori dei Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli, un breve contributo sul pensiero agostiniano in relazione al popolo ebraico. Agostino non cadde nel pregiudizio antiebraico di accusare platealmente i giudei di deicidio. Tuttavia non riuscì a sottrarsi al giudizio sulla cecità dei giudei, incapaci di riconoscere Dio nell’uomo Gesù, divenendo così nemici del Cristo. La loro permanenza e la loro dispersione su tutta la Terra divenne così parte del piano di salvezza di Dio. Per la loro infedeltà furono potati come rami di ulivo per fare posto all’innesto di quell’olivo selvatico che sono i popoli che confluirono nella Chiesa. La speranza è che anche da qui si possa ripartire per progredire nella mutua comprensione tra cristiani ed ebrei.
Tra i molti auguri giunti dal mondo ebraico a papa Prevost spicca quello della Federazione delle Amicizie Ebraico-Cristiane in Italia con l'auspicio che nel 60° della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate il dialogo ebraico-cristiano possa ritrovare lo slancio dei primi anni. Papa Leone XIV, in un messaggio inviato ai leader dell’ebraismo italiano nell’imminenza della cerimonia del suo insediamento in piazza San Pietro, ha scritto: “Confidando nell’assistenza dell’Onnipotente, mi impegno continuare e a rafforzare il dialogo e la cooperazione della Chiesa con il popolo ebraico nello spirito della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano secondo”. In questo numero di Avinu c’è un breve resoconto a cura di Craig Morrison del Pontificio Istituto Biblico di un convegno intitolato “Nostra Aetate e la riscoperta del Gesù ebreo” sullo stato delle relazioni cristiano-ebraiche e sulla riscoperta del retroterra ebraico del Nuovo Testamento. Non solo Gesù infatti: anche “Paolo di Tarso, un ebreo del suo tempo”, libro di Gabriele Boccaccini e Giulio Mariotti da poco edito, è uno dei libri recensiti. Inoltre c’è il programma di una conferenza internazionale promossa dal Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici della Pontificia Università Gregoriana che intende proprio ripensare la Nostra Aetate alla luce degli sviluppi teologici, frutto di decenni di incontri interreligiosi, e dei mutati scenari mondiali.
Un chiaro esempio di dialogo è quello che costituisce la parte più corposa del presente numero di Avinu. Si tratta infatti degli atti del quarantaquattresimo incontro nazionale dei Colloqui ebraico-cristiani ospitati dal Monastero di Camaldoli lo scorso dicembre. Il tema era “Israele e la Chiesa. Questioni di identità”. Quattro giorni di approfondimenti, scambi seminariali, incontri artistici e liturgici, caratterizzati da una vita in comune che rendono l’esperienza dei Colloqui un evento unico nel panorama italiano. Si è trattato non solo delle diverse caratterizzazioni all’interno di Israele e della molteplicità delle Chiese cattoliche e protestanti, ma anche delle differenti identità di coloro che hanno difficoltà a trovare una loro collocazione definita una volta per tutte. Identità “nascoste, ritrovate, marginali” – recitava il volantino programmatico – “intermedie, problematiche”. Pino Di Luccio, a partire dal vangelo di Giovanni, ha costruito la sua ipotesi sulle comunità ebraico-gesuane di Gerusalemme. Pino Pulcinelli ha ridefinito Israele a partire dalla categoria di “mistero” utilizzata da Paolo di Tarso nella lettera ai Romani. Elena Bartolini ha illustrato le infinite pluralità dell’ebraismo. Claudia Di Cave si è occupata delle identità nascoste analizzando il fenomeno del marranesimo. Massimo Gargiulo ha gettato uno sguardo articolato su quella realtà complessa che ha preceduto la separazione delle vie di ebrei e cristiani. Ester Abbattista ha analizzato la figura di Miriam/Maria, la madre di Gesù, come una madre di Israele. Di Marco Morselli pubblichiamo la prolusione e le conclusioni. Il tutto in un periodo particolarmente difficile, con pesanti conseguenze anche sul dialogo ebraico-cristiano, che ad ogni modo non ha impedito ai partecipanti di dialogare in modo rispettoso e sincero allo stesso tempo.
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